Om Malik:

In other words, “the term ‘photographer’ is changing,” he [Peter Neubauer, the co-founder of the Swedish database company Neo Technology] said. As a result, photos are less markers of memories than they are Web-browser bookmarks for our lives. And, just as with bookmarks, after a few months it becomes hard to find photos or even to navigate back to the points worth remembering. Google made hoarding bookmarks futile. Today we think of something, and then we Google it. Photos are evolving along the same path as well.

Thanks to our obsession with photography—and, in particular, the cultural rise of selfies—the problem of how to sort all these images has left the realm of human capabilities. Instead, we need to augment humans with machines, which are better at sifting through thousands of photos, analyzing them, finding commonalities, and drawing inferences around moments that matter. Machines can start to learn our style of photography.

Il mio archivio fotografico non è mai stato così incasinato, al punto che da un paio d’anni a questa parte ho rinunciato a metterci mano. Confido e affido tutto al miglioramento di soluzioni come Google Photos o Forevery, che siano capaci di organizzare le foto automaticamente, per me.

Al contempo, ultimamente, mi chiedo spesso quanto abbia avuto senso scattare quasi quotidianamente così tante fotografie negli ultimi anni. Per il numero (piccolo) di volte in cui sono andato a riguardarle, e per via di funzioni e servizi come On This Day di Facebook, o Timehop, che vogliono ricordarmi ogni giorno quello che stavo facendo, pensando o scrivendo anni prima. Come scrive Om Malik utilizziamo oggi le foto come dei bookmark: non conta più la qualità della foto o l’importanza del momento, le foto sono diventate il modo più facile per appuntarci quello che ci sta succedendo. È utile, però, registrare tutto in maniera così estensiva? Servirà a qualcosa, o è un’ossessione al voler per forza ricordare tutto nei dettagli che non porta a nulla?

Così come internet ha facilitato il restare in contatto con le persone, ha reso anche difficile dimenticare — e un ricordo, una memoria, alla fine è fatta anche di questo. È una cosa sfumata e poco chiara — una cosa di cui ci si ricorda, ma che non si ha più o non è più. La dettagliata e sempre disponibile libreria fotografia dell’iPhone, e i post sui social network, rendono al contrario tutto attuale, registrano le cose esattamente com’erano nel momento in cui avvenivano — non come ce le ricordiamo noi dentro noi, con i buchi causati dal tempo.

Da un articolo già linkato alcune settimane fa:

Part of the palpable dissonance comes from the fact that many of our posts were never intended to become “memories” in the first place. An important question gets raised here: what’s the purpose of all this “content” we serve to platforms, if it’s useless in constructing a remotely valuable history of ourselves? Are we creating anything that’s built to last, that’s worth reflecting on, or have social media platforms led us to prize only the thoughts of the moment?

Apple ha successo perché sono tutti tonti

Ben Thompson ha commentato gli incredibili risultati dell’ultimo trimestre fiscale di Apple. Per capire l’enormità basta pensare a questo: Apple ha perso più soldi a causa delle fluttuazioni di valuta che Google ne ha fatti in un trimestre. Un utile di 18,2 miliardi di dollari in un trimestre: un profitto di circa 8,3 milioni di dollari all’ora. Appunto, assurdo.

Eppure, per qualche ragione, è Apple che è sempre sull’orlo di fallire, il cui “impero” è sotto attacco, e che deve preoccuparsi e temere ogni tecnologia e azienda emergente. Ed è Apple, di nuovo, l’azienda che ha successo solo perché siamo tutti stupidi, imbevuti dal marketing e incapaci di scegliere le miriadi di alternative migliori e più a buon mercato che ci vengono offerte. Scegliamo Apple, e paghiamo di più, perché siamo tonti insomma: senza ricavarci nulla.

Il prezzo di Ben Thompson affronta anche questa accusa, spiegando cosa includa il prezzo “premium” dei prodotti Apple: da una rete (gli Apple Store) sempre pronta a fornire assistenza — da non sottovalutare —, a un’esperienza d’uso che, seppur limitante per un geek, va incontro all’utente comune.

Apple ha successo per il design: la lunga e ponderata progettazione e riflessione che sta dietro ogni singolo aspetto dei suoi prodotti (ed è per questo che il declino nella qualità del software è preoccupante).

The old hoary chestnut that “Apple only wins because its advertising tricks people into paying too much” was raised in my Twitter feed last night, and while the holders of such an opinion are implicitly saying others are stupid, my take runs in the opposite direction: it’s not that people are irrational, it’s that human rationality is about more than what can be reduced to a number. Delight is a real thing, as is annoyance; not feeling stupid is worth so much more than theoretical capability. Knowing there is someone you can ask for help is just as important as never needing help in the first place.

Apple spends an inordinate amount of time and resources on exactly these aspects of their products. Everything is considered, from the purchase to the unboxing to the way a webpage scrolls. Things are locked down and sandboxed, to the consternation of many geeks, but to the relief of someone who has long been conditioned to never install anything for fear of bad actors. Stores – with free support – are just a few miles away (at least in the US), a comfort blanket that you ideally never need. All of this is valuable, even though much of it is priceless, only glimpsed in an average selling price nearly triple the industry average.

A molti qua fuori interessa anche la velocità di un prodotto, la quantità di RAM e tutti i numeri che si riescono a inserire in un’affollata tabella, su carta. Le specifiche tecniche. Ma appunto: sono numeri, e dicono poco su come il prodotto funzionerà realmente, su come le varie parti si integreranno fra di loro.

Pochi comprano un prodotto in base a dei numeri. “Apple ha successo” non per qualche fattore irrazionale, ma per l’esperienza utente. Comprano tutti Apple non perché sono tonti, ma per la ragione opposta: per non sentirsi tonti, grazie a dei prodotti facili da usare — e un’assistenza clienti superiore a ogni altro produttore.

Kottke ha aggiunto al suo blog una sezione composta da soli link, in modo che possa inserire e segnalare velocemente ai lettori quelle cose che ha trovato in rete che gli sono piaciute, e che ha trovato interessanti, ma di cui per qualche ragione non ha parlato.

L’ha motivata così, sul suo blog:

Il web è cambiato. Siti come Reddit, Digg, Hacker News e servizi come Facebook e Twitter sono molto più veloci di un singolo blogger… Quindi, ho scambiato quella velocità in favore della qualità. Non posto più 10 o 12 cose al giorno. Ne posto invece 4 o 6, le più interessanti che posso condividere.

Ma questo significa che un sacco di altra roba interessante (ma per qualche ragione che non conosco da me ritenuta non abbastanza interessante al punto da farci un post) va persa. E questa cosa mi ha dato fastidio di recente.

Che è esattamente la stessa ragione per cui questo blog ha un linklog, e una newsletter: entrambi contengono cose che ho giudicato interessanti, ma che non ce l’hanno fatta a diventare post su Bicycle Mind. Entrambi mi servono a segnalare velocemente, con un click, quelle cose di cui non ho tempo di scrivere.

(Ho deciso di ri-spostare il linklog in prima pagina, sotto il primo post del blog — come Kottke)

Andy Baio ha messo su YouTube una vecchia videocassetta della PBS, contenente un programma del 1995 dedicato a internet: The Internet Show. I due presentatori spiegano cos’è Internet, stando attenti a non utilizzare un linguaggio da nerd (nel corso del programma appaiono frequenti “nerd alert”, seguiti da un rumore fastidiosissimo) e invitando gli ascoltatori a provare questa nuova cosa che, dicono, potrebbe diventare grande.

Guardarlo oggi è un’esperienza surreale. Ad esempio del web parlano solamente a fine dell’episodio — lo menzionano rapidamente, un po’ come si parla di un esperimento che forse potrebbe avere successo. Di Gopher invece sono più entusiasti.

Bellissimo.

Come il Regno Unito immagina le biblioteche del futuro

Un rapporto sulle biblioteche pubbliche del ministero della Cultura, dei media e dello sport del Regno Unito ha provato a immaginare come queste dovranno essere, e le trasformazioni che dovranno subire, per il futuro. Riassumendo il risultato in una riga: un po’ più simili a dei coffee shop, con spazi più confortevoli, con bevande e divani, e ovviamente WiFi.

Ma la domanda che alcuni si chiedono è: ne abbiamo ancora bisogno? Sì, dice il rapporto[1. Io in biblioteca ci vado più volte a settimana, anche nei periodi in cui non devo studiare. Quando stavo a Pisa la biblioteca di scelta era la SMS Biblio, aperta nel 2013: molte di queste “richieste” le rispettava.], e spiega il perché a pagina sei:

The library does more than simply loan books. It underpins every community. It is not just a place for self-improvement, but the supplier of an infrastructure for life and learning, from babies to old age, offering support, help, education, and encouraging a love of reading. Whether you wish to apply for a job, or seek housing benefit, or understand your pension rights or the health solutions available to you, or learn to read, the library can assist. […]

There is still a clear need and demand within communities for modern, safe, non-judgemental, flexible spaces.

Le biblioteche non devono essere percepite solo come una collezione di libri da cui attingere, ma un luogo tranquillo in cui accedere all’informazione (selezionata e) importante per una comunità, gratuitamente e senza barriere d’ingresso (nel rapporto ricordano che diversi cittadini inglesi tuttora non hanno accesso a internet da casa; qua si ricorda che in Italia la situazione è ben peggiore). Uno spazio non solo per studiare, o per chi ha bisogno di libri, ma aperto a tutti. Devono diventare, riporta il documento, un “community hub”.

Mi è tornato in mente un discorso tenuto da Nel Gaiman al Barbican Centre (Londra), un anno fa. Disse una cosa simile in difesa delle biblioteche:

I worry that here in the 21st century people misunderstand what libraries are and the purpose of them. If you perceive a library as a shelf of books, it may seem antiquated or outdated in a world in which most books in print exist digitally. But that is to miss the point fundamentally. I think it has to do with nature of information. Information has value, and the right information has enormous value. […] A library is a place that is a repository of information and gives every citizen equal access to it. That includes health information. And mental health information. It’s a community space. It’s a place of safety, a haven from the world. It’s a place with librarians in it. What the libraries of the future will be like is something we should be imagining now.

Literacy is more important than ever it was, in this world of text and email, a world of written information. We need to read and write, we need global citizens who can read comfortably, comprehend what they are reading, understand nuance, and make themselves understood.

(Via Il Post)

Duet Display + Sugru

Duet Display + Sugru

Il mio iPad Mini — che dall’acquisto dell’iPhone 6 giaceva in abbandono — ha ritrovato uno scopo come display aggiuntivo e esterno del MacBook Air. Duet Display è l’applicazione che lo consente: l’iPad deve rimanere collegato al computer (via porta USB), ma in cambio si ottiene una versione di Mac OS X che funziona su Touch Screen che risponde al tocco. L’iPad diventa un monitor esterno — magari pure Retina, se avete un iPad con Retina Display! — con capacità touch: si possono spostare le finestre dallo schermo del Mac a quello dell’iPad; e rispostarle con il trackpad del MacBook oppure direttamente con la mano, una volta sull’iPad.

Un setup ideale, che funziona senza intoppi (a volte mostra un po’ di lag, ma accettabile e minimo). Da quando l’ho installato mi sono solamente pentito di non avere preso un iPad Air. Sull’iPad ci metto Twitter, timer, newsfeed e cose secondarie, mentre sul MacBook Air posso tenere quello su cui sto lavorando.

Un’aggiunta: Sugru. Con quello (come sempre: ne consiglio l’acquisto), e seguendo una guida sul loro sito, ho creato uno stand per la parete davanti alla scrivania, sul quale poggiare l’iPad e averlo sempre sott’occhio.

Dopo 16 anni, Doc Searls e David Weinberger hanno scritto un nuovo manifesto. Una serie di “clues” sulla rete. Si legge su Medium e su quest’altra pagina di Dave Winer.

9. The Internet is no-thing at all. At its base the Internet is a set of agreements, which the geeky among us (long may their names be hallowed) call “protocols,” but which we might, in the temper of the day, call “commandments.”

10. The first among these is: Thy network shall move all packets closer to their destinations without favor or delay based on origin, source, content, or intent.

11. Thus does this First Commandment lay open the Internet to every idea, application, business, quest, vice, and whatever.

12. There has not been a tool with such a general purpose since language.

13. This means the Internet is not for anything special or in particular. Not for social networking, not for documents, not for advertising, not for business, not for education, not for porn, not for anything. It is specifically designed for everything.

14. Optimizing the Internet for one purpose de-optimizes it for all others.

15. The Internet like gravity is indiscriminate in its attraction. It pulls us all together, the virtuous and the wicked alike.

Automatismi

Gli automatismi con cui giudichiamo chi ha lo sguardo fisso su uno schermo mi hanno sempre lasciato perplesso. “Guarda la coppia seduta al tavolo di fianco: da cinque minuti non si scambiano una parola, troppo presi dal loro smartphone.” — spesso qualcuno mi fa notare. Pazienza se non conosciamo nulla di quello che stanno facendo o hanno fatto (magari hanno parlato incessantemente per ore), e di ciò che faranno dopo: qualcuno li giudicherà comunque.

Nella stessa maniera, moralista e fastidiosa, e con la stessa popolarità di cui queste cose godono, circola in rete una foto di una scolaresca in gita ad Amsterdam, dentro a un museo (il Rijksmuseum), di fianco a un Rembrandt, e con gli sguardi chini sui loro cellulari. A nessuno viene da supporre che i ragazzi stiano cercando il quadro su Google — magari sollecitati dall’insegnante —, stiano utilizzando l’applicazione del museo o stiano facendo di internet un qualsiasi altro uso proficuo.

No. È un segno di dove siamo andati a finire. Scrive Massimo Mantellini:

Vi viene in mente una maniera più efficace per descrivere la povertà dei tempi moderni? Il loro abisso, la perdita di ogni punto di riferimento, il disinteresse verso la cultura classica, l’eterno riferirsi ad un presente che ci rimbecillisce?

No, una maniera migliore non c’è, e non c’è per due ragioni. La prima è quella – ovvia – che se ci interessa sostenere la tesi della stupidità del nostro essere eternamente connessi (ed eternamente dediti di giorno e di notte a stupidaggini irrilevanti) quella foto è perfetta. Anzi sono abbastanza sicuro che la vedremo circolare nei prossimi dieci anni con discreta frequenza perché il non detto che trasmette è di primo acchito chiaro e lampante. Piuttosto che comprendere la grandezza di Rembrandt i giovani virgulti preferiscono dare conferma alle fosche previsioni di “malattia generazionale” sostenute da Umberto Eco, l’umanità avviata all’autodistruzione dentro un gorgo di superficialità che infine ci ucciderà tutti.

La seconda ragione è che, molto probabilmente quella foto non è quello che sembra e anzi la lettura superficiale che siamo portati a darne è a sua volta un segno interessante di quanto siano vasti e automatici i pregiudizi che riserviamo al mondo che cambia.

Collegamenti

Nikola Tesla, in un’intervista (di impressionante preveggenza) per Collier’s del 1926:

Il sistema senza fili sarà di grande beneficio per la specie umana, più di qualunque altra scoperta scientifica, perché annullerà virtualmente le distanze. La maggior parte dei mali di cui l’umanità soffre sono dovuti all’immensa estensione del globo terrestre e all’impossibilità per gli individui e per le nazioni di entrare in stretto contatto. I collegamenti senza fili ci avvicineranno grazie alla trasmissione di intelligenza, al trasporto di corpi e di materiali, al trasferimento di energia. Quando i collegamenti senza fili saranno perfettamente applicati, l’intero pianeta sarà convertito in un grande cervello, cosa che in effetti è, ogni cosa essendo parte di un tutto reale e ritmico. Saremo in grado di comunicare con gli altri in modo istantaneo, indipendentemente dalle distanze. Non solo: attraverso la televisione e il telefono potremo vedere e sentire un’altra persona a migliaia di chilometri, e lo strumento con cui potremo farlo sarà incredibilmente semplice rispetto agli attuali telefoni. Un uomo potrà portarne uno nella tasca del suo gilè. Saremo testimoni e ascoltatori di eventi – il giuramento di un presidente, la partita di un torneo mondiale, la devastazione di un terremoto o il terrore di una battaglia – proprio come se fossimo presenti.

(Via Giovanni De Mauro)

Il futuro dei libri è nel browser?

Pelican Books è la collana di saggistica di Penguin Books. Venne fondata nel 1937, con l’intento di pubblicare volumi che illustrassero con una prosa semplice argomenti complessi e importanti. Lo scorso Aprile Penguin ha deciso di rilanciare la collana, chiusa nel 1984, con particolare attenzione verso gli ebook e il digitale.

A fianco del classico .epub, Pelican ha presentato pelicanbooks.com. Il sito permette acquisto, lettura e “consumo” dei (cinque, per ora) titoli disponibili. L’utente non scarica un file, ma a seguito dell’acquisto ottiene l’accesso al sito — dal quale può leggere il contenuto del libro. La fruizione è molto piacevole — ricorda Medium come impaginazione — e Pelican è stata attenta nell’offrire gli strumenti fondamentali di cui un lettore necessita durante la lettura di un libro. Il sito permette di sottolineare e salvare passaggi (oltre che condividerli), ricorda la posizione di lettura ed è, ovviamente, responsivo: risulterà leggibile sia da Mac che da iPhone.

La scommessa di Penguin è semplice: che il futuro del libro stia nel browser. Un modello che presenta anche degli svantaggi: i dati (es. annotazioni) e i libri stessi rimangono chiusi dentro pelicanbooks.com, e di fatto il lettore non possiede nulla se non l’accesso ai contenuti del sito. Una sorta di libro con paywall che funziona bene nel caso di Pelican e nel campo della saggistica — provo a ipotizzare — ma avrebbe forse meno fortuna in narrativa.

Scegliendo questa strada — evitando l’.epub — Pelican ha evitato anche i limiti dell’.epub. Limiti dovuti più al device che al formato stesso. L’ebook reader più diffuso (Kindle) è in bianco e nero, con tipografia bruttissima. I singoli titoli non ricevono alcuna particolare attenzione o cura, e si somigliano tutti perché la possibilità di distinguersi è minima. Al contrario, sviluppando per il browser l’editore ha più opzioni nel creare un ebook. Potrà finalmente scegliere una tipografia adeguata. Avrà la stessa libertà creativa che ha nel progettare un libro di carta — e potrà riporre nell’ebook la stessa attenzione e cura. Due esempi di libri costruiti attorno al browser: The Shape of Design di Frank Chimero, o Practical Typography di Butterick. L’esperienza di lettura non è inferiore a quella di un .epub — anzi, direi il contrario. Due cose che funzionano meglio nel libro di Chimero e Butterick: le note a piè di pagina e i link.

L’esperimento di Pelican mette il browser al centro dell’esperienza di lettura: del resto i tablet sono più diffusi del Kindle, e il browser permette a un libro di essere fruibile ovunque — e in maniera simile su ogni device. Si può iniziare a leggere “Economics: The User’s Guide” (uno dei titoli di Pelican) da Safari, su Mac, per poi continuare sull’iPhone e più tardi proseguire dall’iPad. Il tutto digitando un indirizzo. Un libro, la stessa esperienza di lettura su ogni dispositivo, fluida e coerente.



Pelican ha iniziato a costruire i suoi ebook domandandosi quale ruolo assuma la copertina di un libro, quando questo è digitale. La copertina è la prima cosa che vediamo ogni volta che prendiamo in mano un libro di carta, ma è ridotta a una thumbnail visibile quasi solamente al momento dell’acquisto nel caso degli ebook. È al centro dell’attenzione nei libri di carta, nascosta e poco curata negli ebook. Ne ha parlato Matt Young (designer di Pelican) a Fast Company:

When reading a book in print, we interact with the cover every time we open and close the book – we see it all the time, it reinforces our perception of the book in our minds. Whereas when reading an ebook, the cover often has a much smaller role to play – reduced to a thumbnail, and sometimes never seen again once the book has been purchased. With Pelican, the cover is echoed throughout the entire book: each chapter begins with a full-page/full-screen chapter opener, acting as an important visual signpost and echoing the cover, reinforcing the brand and the series style.

I libri su browser di Pelican provano a andare oltre la copertina — vista la perdita d’importanza, e di posizione — cercando invece di rendere riconoscibili le singole pagine. Pelican ha costruito uno “stile grafico” che il lettore ritrova e riconosce in tutte le pagine di un libro: l’azzurro che contraddistingue la collana si ritrova nei passaggi evidenziati, o come bordo della finestra del browser. L’ebook non è più anonimo — date le scelte tipografiche, o quelle minime di layout, non fastidiose ma sempre a vantaggio della leggibilità — ma ha uno stile ben definito. È evidente come l’editore vi abbia riposto la stessa cura che ripone nell’edizione cartacea. Cosa non esattamente possibile al momento, su Kindle.

MetaFilter sembra un posto bellissimo, che da un po’ di tempo mi riprometto di iniziare a frequentare. Nato nel 1999, è un weblog collaborativo in cui gli utenti segnalano “il meglio del web”. La qualità dei contenuti (e delle discussioni che questi generano) è molto alta, anche a grazie a un gruppo di moderatori che legge e vaglia ogni post pubblicato sul sito. Il risultato è una community molto rara su internet: variegata, composta perlopiù da persone disponibili, attente e intelligenti. Scrive Stephen Thomas:

MetaFilter users are what I would characterize as “self-consciously smart,” which, I promise, doesn’t play out as gratingly as it sounds. It’s more like, “I know I’m smart, I know you’re smart, we’re all smart around here, so we don’t have to show off (although we do sometimes anyway cuz it’s fun).”

L’articolo di Stephen Thomas, “Una famiglia di sconosciuti“, racconta alcune storie nate attorno a ask.metafilter.com (AskMeFi), una sezione del sito in cui gli utenti postano domande, e rispondono a quelle di altri. Storie che riscaldano il cuore — e che mostrano una community unica e difficile da trovare (e creare) online. Una storia a caso: Matt Haughey, il fondatore del sito, invia un assegno a un utente per pagare le spese mediche che ha dovuto affrontare per la moglie. Questo avviene senza alcuna particolare ragione, e 41 minuti dopo che l’utente ne aveva fatto breve accenno sul sito. Oppure l’annuale scambio di biscotti, che avviene sotto Dicembre: a chi decide di parteciparvi vengono assegnati quattro utenti a caso, selezionati in base alla vicinanza geografica, a cui si dovranno inviare dei biscotti per le feste.

Come ben descrive il titolo, una famiglia di sconosciuti disposta ad aiutarsi a vicenda:

People connect to each other here, is what I’m saying. They get to know each other and they treat each other well. If Twitter is people you don’t know at their wittiest, and Facebook is people you do know at their most mundane, then MetaFilter, I would say, is a family of strangers.

(Recentemente MetaFilter ha avuto alcuni problemi, dovuti a un cambio nell’algoritmo di Google che hanno causato meno visite e guadagni. Di conseguenza, l’iscrizione al sito non è più gratuita ma richiede un piccolo pagamento iniziale: sistema che aiuta sia a sostenersi, sia a mantenere una community gestibile e priva di troll)

Paul Ford ha scritto un pezzo bellissimo, e nostalgico, sui computer di una volta. Nel corso della settimana si è ritrovato a emulare un vecchio Amiga, e decine di altri OS e software dei tempi che furono, e a ripensare di conseguenza alle persone che vi lavorarono. È capitato anche a me di passare un pomeriggio su Mac OS Classic, e altri sistemi operativi e programmi nati prima di me: programmi che oggi appaiono obsoleti e ovvi, ma che ai tempi erano frutto di decisioni che dovevano ancora tramutarsi in convenzioni — c’è quella sensazione di essere di fronte a qualcosa di importante, di storico, nell’usarli:

Moore’s law, the speed at which technology moves forward, means that the digital past gets smaller every year. So this is what is left are the tracings of hundreds of people, or thousands, who, 20, 30, 40 years ago found each other and decided to fabricate all this…digital stuff. Glittering ephemera. They left these markings and moved on. Looking at the emulated machines feels…big, somehow. Like standing at a Grand Canyon with a river of bright green pixels running along the bottom.

When you read histories of technology, whether of successes or failures, you sense the yearning of people who want to get back into those rooms for a minute, back to solving the old problems. How should the mouse look? What will people want to do, when we give them these machines? How should a window open?

28 Ottobre 2014

Giorno in cui il sottoscritto nolentemente viola uno dei suoi precetti e decide di applicare una cover all’iPhone, nello specifico quella nera in silicone prodotta da Apple stessa. La cover aggiunge uno spessore notevole, più di quanto non si sospetterebbe, e ha il tipico a malapena accettabile costo (35 euro) degli accessori Apple.

Tale atto empio e deprecabile, da sempre contestato (a testimonianza rimando a un articolo del 2011), che cela l’elegante design dell’iPhone — che a questo punto per quel che mi concerne poteva essere rosa e illuminare nel buio dato che mai lo vedrò — è stato reso necessario dal design dell’oggetto in questione. Date le dimensioni esagerate risulta una sofferenza da tenere in una mano sola, ma soprattutto — di nuovo: saranno le dimensioni, saranno i bordi arrotondati, o sarò io — risulta estremamente scivoloso. La cover fornisce quell’attrito necessario, e fino all’iPhone 5S offerto di default dal design dell’iPhone stesso, affinché il device non si proietti verso il suolo e la mia presa su di esso risulti efficace. (La cosa peggiore, aggiungo, è che oramai mi sono abituato allo schermo dell’iPhone 6: quando vedo un iPhone 5S mi dà l’impressione di essere estremamente piccolo, nonostante contemporaneamente provi frustrazione ogni volta che uso il 6 in movimento.)

Design è come funziona — ci ha detto più volte Apple. Non è solo l’estetica appagante di un oggetto, ma quanto usabile risulta. Se per farlo funzionare devo ricorrere a due mani e aggiungerci una cover allora, ne deduco, potrebbe funzionare meglio.

La macchina che si guida da sola è ancora fantascienza

La macchina che si guida da sola, quella che già da ora sta guidando in certe strade, la stessa che Google ha fatto provare a un gruppo di utenti, potrebbe essere meno imminente di quanto non sembri. Lee Gomes, su Slate, ne spiega le ragioni: il prototipo — perché di questo si tratta: di un prototipo — potrebbe sembrare più intelligente di quanto non sia, affidandosi invece a sistemi impossibili da applicare su larga scala.

Il problema principale è il sistema di mappatura che permette alla macchina di muoversi per le strade. Senza di esso, la macchina non è in grado di muoversi di un centimetro. Si tratta di una specie di Google Maps, ma molto più complesso, dettagliato e — come Google stessa rivela — inefficiente. Le mappe forniscono alla macchina la posizione precisa di ogni oggetto circostante; segnale, semaforo, scritta, etc.: tutto quello che può servirgli per guidare. In tale modo, più memoria e capacità di calcolo può essere dedicata a rilevare gli oggetti in movimento, quali persone o veicoli circostanti. Gomes riporta il laborioso processo necessario a produrre queste mappe:

A dedicated vehicle outfitted with a bank of sensors first makes repeated passes scanning the roadway to be mapped. The data is then downloaded, with every square foot of the landscape pored over by both humans and computers to make sure that all-important real-world objects have been captured. This complete map gets loaded into the car’s memory before a journey, and because it knows from the map about the location of many stationary objects, its computer—essentially a generic PC running Ubuntu Linux—can devote more of its energies to tracking moving objects, like other cars.

L’immagine che a me è venuta in mente, leggendo, è quella di un tram. Anche se queste macchine apparentemente sembrano muoversi senza vincoli in realtà fanno stretto affidamento a una mappa virtuale che utilizzano come sorta di rotaia per sapere come muoversi e dove andare. Oltretutto, una mappa non è mai conclusa: se il processo di creazione è laborioso, quello di aggiornamento è ancora più difficoltoso. Se un segnale stradale viene cambiato, o un semaforo aggiunto, affinché la macchina se ne accorga è necessario che la mappa a cui fa affidamento sia stata aggiornata. Altrimenti potrebbe andare dritta, ignorandolo. Il problema non è minore: le strade vengono cambiate all’improvviso, deviazioni o cartelli aggiunti dal mattino alla sera: è impossibile per Google riuscire a tenere traccia di tutto ciò in tempi ragionevoli e sicuri. A meno che non immaginiamo un futuro imminente in cui le strade vengano ridisegnate e adattate ai veicoli autonomi (oramai la norma) e in cui un cartello stradale è prima segnalato online e poi in strada.

La realtà è che sembrerebbe Google voglia che la macchina che si guida da sola ci sembri più reale di quanto non sia. Un altro di quei suoi prodotti innovativi e quasi impossibili (e di fatto tali, per lungo tempo ancora) usciti da Google X, che si rivelano poi per quello che sono: prototipi. In questa categoria inserisco anche i Google Glass, che ultimamente sembrano abbastanza ignorati da Google stessa, più focalizzata su Android Wear. E che resteranno ancora per lungo tempo un prototipo. O se ci piace di più come dicono loro, “beta”.

Sul New York Times, Judith Newman racconta di come suo figlio, autistico, abbia trovato in Siri un’amica pronto ad ascoltarlo e a conversare con lui.

È un racconto bellissimo:

It’s not that Gus doesn’t understand Siri’s not human. He does — intellectually. But like many autistic people I know, Gus feels that inanimate objects, while maybe not possessing souls, are worthy of our consideration. I realized this when he was 8, and I got him an iPod for his birthday. He listened to it only at home, with one exception. It always came with us on our visits to the Apple Store. Finally, I asked why. “So it can visit its friends,” he said.