Dave Winer su Medium 3.0, la cui differenza principale è l’aver rimpiazzato il like con degli applausi — che uno può applicare infinitamente e ripetutamente allo stesso articolo. Gli (mi) sembrano un po’ agli sgoccioli:

We’re in the long tail of the demise of Medium. They’ll try this, and something else, and then another thing, each with a smaller probability of making a difference, until they turn it off. At that point, if that happens (disclaimer: I’m often wrong), it will be a disaster. A lot of important stuff was published on Medium over the years.

Winer suggerisce a Medium un’altra via, prima di gettare la spugna: smettere di essere una piattaforma chiusa (con obiettivo unico quello di monetizzare il contenuto degli scrittori che attraggono), e diventare un software aperto, una base, sulla quale altri possano costruire.

Come sottolinea Nick Heer, molte delle testate che Medium era riuscita a convincere a passare alla sua piattaforma, meno di un anno fa, se ne sono andate o hanno intenzione di farlo — perché i loro contenuti si perdono dentro Medium, dove tutto si somiglia:

Earlier this year, Film School Rejects and Pacific Standard moved away from the platform; this month, the Awl announced that they went back to WordPress with their old custom theme. The Ringer and Backchannel also left Medium. Once again, I can tell those sites apart from each other.

Il The Atlantic ha un lungo profilo su Ev Williams, il CEO di Medium (e prima di Twitter, e prima ancora di Blogger). Si parla di open web, e di quello che Williams sta facendo per salvarlo, anche se personalmente non sono del tutto persuaso dal suo discorso (di come e del perché Medium sarebbe diverso — più aperto? — di altri social network):

The open web’s terminal illness is not a story that he alone is telling. It is the common wisdom of the moment, espoused by Times columnists and longtime tech bloggers. The developers who wrote Drupal and WordPress, two important pieces of blogging software, both recently expressed anxiety over the open web’s future. Since so many of these social networks are operated by algorithms, whose machinations are proprietary knowledge, they worry that people are losing any control over what they see when they log on. The once-polyphonic blogosphere, they say, will turn into the web of mass-manufactured schlock.

Something like this has happened before. Tim Wu, a law professor at Columbia University, argues in his book The Master Switch that every major telecommunications technology has followed the same pattern: a brief, thrilling period of openness, followed by a monopolistic and increasingly atrophied closedness. Without government intervention, the same fate will befall the internet, he says. Williams cites Wu frequently. “Railroad, electricity, cable, telephone—all followed this similar pattern toward closedness and monopoly, and government regulated or not, it tends to happen because of the power of network effects and the economies of scale,” he told me.

Oramai certe cose vanno a finire (anche) su Medium. Bicycle Mind esiste anche la, seppur in forma limitata. Seguitelo, se vi va (e già che ci siete, un altro click e seguite anche il sottoscritto).

Twitter mi ha stancato

Ho (quasi) completamente smesso di utilizzare Twitter. È successo pian piano, e non intenzionalmente. Ho iniziato scrivendoci sopra meno frequentemente, passando da utente attivo a passivo. Osservando la timeline, limitandomi a dare una stellina o due al giorno, a retwittare al massimo. Quei pochi tweet fatti di testo sono diventati meno interessanti di un tempo: più impersonali. Ho iniziato col twittare solo link ed immagini, che è quello che vuole Twitter oggi: meno parole, più contenuti. All’inizio il mio twittare era fatto di opinioni, pensieri e riflessioni personali; oggi è fatto di link e retweet.

Tweetbot — il client che uso da anni — è ancora nella prima schermata del mio iPhone, ma solo per abitudine: perché, dal 2006, Twitter è stata una presenza costante. Ho conosciuto persone su Twitter, ho interagito con tanti lettori di questo blog. Credo il mio rapporto con Twitter perduri per abitudine, affezione, più che per ciò che oggi ne traggo.

Purtroppo, mi sento di condividere le parole di Umair Haque:

We once glorified Twitter as a great global town square, a shining agora where everyone could come together to converse. But I’ve never been to a town square where people can shove, push, taunt, bully, shout, harass, threaten, stalk, creep, and mob you. […]

What really happens on Twitter these days? People have self-sorted into cliques, little in-groups, tribes. The purpose of tribes is to defend their beliefs, their ways, their customs, their culture — their ways of seeing the world. The digital world is separated into “ists” — it doesn’t matter what, really, economists, mens-rightists, leftists, rightists — and those “ists” place their “ism” before and above all, because it is their organizing belief, the very faith that has brought them together in the first place.

Twitter, come strumento per conversare e raggiungere chiunque, negli ultimi anni mi ha deluso. Il passaggio da social network per tutti a social network ottimizzato per celebrità l’ha impoverito. L’incapacità di migliorarsi, non solo per pubblicitari e Taylor Swift, l’ha reso più scemo. Su Twitter si grida. La piattaforma non promuove più le conversazioni ma soprattutto promozioni e litigi. Non è più fatta per gli utenti, ma per i pubblicitari.

L’idea alla base di Twitter è ancora valida, solamente a questo punto ho grosse perplessità che sarà Twitter a realizzarla pienamente. Twitter è stato, per un periodo di tempo, lo strumento migliore per avviare una conversazione su internet — il modo più rapido e sicuro per raggiungere qualcuno. Per me, se non altro, era soprattutto quello: un luogo per conversare; la facilità e rapidità con cui è possibile intromettersi in uno scambio di tweet senza dover prima chiederne il permesso. Ma basta guardare a cos’ha lavorato Twitter negli ultimi anni per capire che le priorità sono state altre. L’ultimo sforzo inutile sono i sondaggi nativi. Invece di migliorare le conversazioni, lo sforzo è andato a concentrarsi nell’assomigliare più ad altri social network, alle alternative. Insomma, negli ultimi anni Twitter si è impoverito e non ha fatto nulla per risolvere quei problemi che rovinano il suo prodotto principale: le conversazioni — problemi come abuso, o difficoltà per utenti non esperti e casuali di estrarre utilità dalla piattaforma. La timeline è Twitter, e il lavoro sulla timeline è stato molto debole — le difficoltà che c’erano nel 2006 nel restare aggiornati perdurano nel 2015. Anche il nuovo Twitter Moments è deludente: ricorda, per implementazione — così visuale, pieno di media e privo quasi di testo —, più Snapchat che Twitter. Invece di essere fatto e basato sulle conversazioni degli utenti sembra essere fatto dalle conversazioni di un gruppo di persone verificate e testate selezionate.

Nel 2015, Medium sembra uno strumento più adatto per parlare con qualcuno. Molto lavoro nell’ultimo anno è andato proprio in questa direzione: a sembrare meno una pubblicazione editoriale, e più un network di persone che parlano fra loro. Medium è un social network che facilita la conversazione, e che nel frattempo pone anche attenzione sulla qualità della conversazione. I suoi contenuti sono facili da ritrovare senza dover avere un client sempre aperto.

Ho iniziato dicendo che ho smesso di twittare, se non raramente. Mi accorgo però che ultimamente ho anche smesso di leggerlo, Twitter. Le conversazioni che un tempo seguivo con attenzione oggi avvengono — e si rivelano più proficue — altrove senza tutto quel rumore di fondo. Spesso, quell’altrove è Medium.

L’unità fondamentale del blog non è l’articolo. L’unità fondamentale del blog è lo stream

In occasione del 15esimo anniversario del suo blog, Anil Dash scriveva:

Lo scroll è tuo amico. Se hai pubblicato un post brutto o qualcosa che non ti piace, semplicemente scrivi qualcosa di nuovo. Se hai pubblicato qualcosa di cui sei particolarmente orgoglioso e nessuno se la fila, semplicemente scrivine di nuovo. Un passo dopo l’altro, una parola dopo l’altra, è l’unico fattore comune che ho trovato a questo blog di cui sono orgoglioso. I post scendono nella pagina, e il buono e il brutto semplicemente scorrono via.

È una descrizione perfetta di un blog. Non è il singolo articolo a renderlo interessante, ma l’insieme degli articoli che si susseguono. Articoli magari inconcludenti, ma il cui insieme dà forma a qualcosa di interessante. E se un articolo non funziona se ne scrive uno nuovo, o se un’idea non è stata ben espressa la si esprime di nuovo. Lo stream si porta via tutto. Come sollinea Michael Sippey su Medium, “l’unità fondamentale del blog non è il post. L’unità fondamentale del blog è lo stream”. Il valore di un post è derivato (spesso) dal blog di provenienza e dall’autore/blogger.

L’ultimo aggiornamento di Medium, che agevola contenuti brevi, è un ritorno in quella direzione, verso lo stream. Mentre il vecchio Medium cancellava l’autore (Joshua Benton: “La cosa più radicale di Medium è che cancella l’autore […], lo degrada, lo rende secondario“) per sostituirsi fra il pezzo e il lettore — provando a instaurare l’idea che Medium = qualità — il nuovo Medium rimette l’autore (e lo stream) al centro.

La domanda è: qual è il modello più corretto oggi? Organizzare il materiale per collezioni, oppure per autore? L’autore ha ancora uno spazio, oppure il web di oggi (con lettori guidati dai social network) agevola contenuti atomici — cancellando l’autore e di conseguenza la costruzione di uno stream/audience? Domande che il The Atlantic si è posto in “What Blogging Has Become“:

Cos’è la scrittura su web nel 2015? Ruota ancora attorno all’autore? E se ti piace osservare un autore nel corso del tempo (o ti piace avere questa libertà come autore), c’è ancora un modo di farlo? Oppure i contenuti sono diventati atomistici [a sé stanti] e non è più possibile raccogliere attorno a una voce un audience? Il nuovo Medium è una scommessa che è rimasto qualcosa di valido nel modello che ruota attorno all’autore.