Un nuovo Mac

Ci sono diversi modi per approcciare un nuovo Mac. Molti trasferiscono tutto quello che avevano sul Mac precedente, e riprendono da dove avevano lasciato. File, applicazioni, impostazioni: il Mac nuovo è praticamente un clone del Mac vecchio. Vantaggio: si fa in fretta, non c’è bisogno di passare ore a configurarlo. Svantaggio: si portano dietro i problemi del Mac vecchio.

A di piace partire da zero. Quando cambio computer è perché oramai il precedente è pressoché definitivamente andato. In questo caso, il precedente è un MacBook Air early-2012, con trackpad mezzo rotto (ho dovuto attivare tap to click o avrei smesso di cliccare), tasto tab rimappato con Karabiner su tasto fn (causa: un espresso), SSD con soli 7GB liberi e settimanali ‘Your startup disk is almost full’, OS X Yosemite, batteria in stato ‘service’ da un anno e mezzo con durata effettiva fra i 30 e 40 minuti e più di 900 cicli di carica, cavo d’alimentazione con quattro Sugru di diverso colore applicati in tempi diversi per tenerlo assieme e, in aggiunta, molti molti file (inutili), molte molte applicazioni (inutili), molte molte impostazioni (inutili) retaggio di necessità passate.

Il MacBook Air early-2012 mi ha accompagnato per quasi cinque anni; ha visto prima Pisa poi Londra, ha vissuto in quattro case diverse, è passato per l’università, è sopravvissuto a due iPhone, ci ho scritto due tesi sopra, i post di questo blog; ha funzionato egregiamente per cinque anni ed è riuscito a reggere un utilizzo intenso e costante. Mi piacerebbe sapere per quanti giorni, negli ultimi cinque anni, non ha dovuto lavorare[1. Forse mi basta controllare quando sono stato all’estero/in vacanza]. Ma – ad essere onesti – gli avrei dato un saluto finale già diversi mesi fa, quando inavvertitamente gli versai un espresso sopra, non fosse che Apple si è ricordata che i Mac esistono solo di recente, a Settembre.

Nonostante faccia un uso intensivo dell’iPhone (e chi non lo fa?), il Mac è ancora il device a cui tengo di più: quello su cui riesco ad essere produttivo, quello che non mi fa sentire solo un consumatore passivo. Capisco per altri sia diverso – e io stesso sono convito per molti abbia senso rimpiazzare il computer con un iPad – ma nel mio caso non c’è paragone. Riesco a fare o ad iniziare cose utili su un iPhone – leggere, rispondere a mail, organizzare la mia giornata, scrivere i post di questo blog, etc. – ma fino ad oggi a un certo punto vado a cercare il Mac, per portarle a termine.

I MacBook Air oramai non hanno più alcun senso, se non coprire una fascia di prezzo che Apple ancora non riesce a coprire con i nuovi device. I MacBook non Pro sono bellissimi ma inadatti alle mie necessità. Il MacBook Pro senza Touch Bar era l’unica altra valida opzione, ma siccome un Mac mi dura abbastanza a lungo, e siccome ne faccio un uso intensivo (e siccome semplicemente la voglio provare 😉 ), ho optato per quello con Touch Bar. Di 13’.

Quando cambio computer, prima di accenderlo, faccio questo:

  1. Un backup completo del precedente con Time Machine
  2. Metto su un hard disk esterno cartelle e file di cui so di avere bisogno (non sono molti: più o meno tutti quelli essenziali già stanno su Dropbox)
  3. Mi segno su un blocco note alcune cose da fare appena quello nuovo sarà accesso: configurazioni o app che mi vengono in mente e che so di volere fin da subito

Non è un processo lungo, però, sopra il quale perdere troppo tempo. Se mi dimentico qualcosa, pazienza: il backup completo serve a quello, e mano a mano che le applicazioni dimenticate mi vengono a mente le installo. Molte si perdono nel processo, ma è proprio questo il punto: molte non servono più.

Di seguito, le applicazioni che ho finito con l’installare nei primi dieci giorni.


1

Dropbox. Ovviamente.

Ulysses. Per i post lunghi, o (prima, per l’università) documenti che richiedono un lungo periodo di ricerca ed elaborazione.

1Password 6. Se non l’avete, vi volete male.

Notational Velocity. È il mio blocco note, salvato su Dropbox (così che sia accessibile anche da iPhone)

Sketch. Mi serve per lavoro.

Spotify. Ovviamente.

Sonos. Ho comprato un Sonos Play:1 un mese o poco più fa, ne sono molto soddisfatto.

Tweetbot. Su Twitter mi faccio sentire poco, però nei momenti di noia lo controllo (un po’ a caso, senza curarmi di seguire tutto)

2

Unclutter. Questa piccola utility è meravigliosa. La uso da quando l’ho scoperta, tre/quattro anni fa. Praticamente aggiunge un cassetto delle cianfrusaglie al Mac, raggiungibile con uno swipe verso il basso dalla barra dei menù. Potete appuntarvi cose, trascinarvi file o accedere a un clipboard manager.

Slack. Metà delle persone con cui lavoro stanno in Canada, altre lavorano da casa. Usiamo Slack per comunicare.

Atom. L’editor che uso quando devo mettere mano a un sito web.

Reeder. Uso Feedbin per i blog e i feed rss, e frequentemente lo uso semplicemente da web. A volte però lo leggo da Reeder. Dipende.

Things. Ho provato centinaia di migliaia (è solo in parte un’esagerazione!) di applicazioni GTD, per gestire le cose da fare. Alla fine torno sempre a Things. Things è sul mio iPhone dal mio primo iPhone.

 

3

Cloak. Di questi tempi un VPN è essenziale. Cloak è semplicissimo da usare, si attiva in automatico quando serve (su connessioni pubbliche/non protette) e permette di geolocalizzarvi in altre nazioni, così da aggirare i blocchi sui contenuti di certi siti web.

CraftManager. Per lavoro: usiamo Invision.

Chrome. La sua console per sviluppatori è superiore a quella di Safari.

 

4

TouchSwitcher. Una nuova utility che prima non c’era, dato che riguarda la Touch Bar. Aggiunge un app switcher/dock alla Touch Bar.

Bartender 2. A questo punto la menù bar ha iniziato ad essere affollata, e ho dovuto porvi rimedio.

Ember. Un’app sviluppata da Real Mac Software che utilizzavo per gestire la mia libreria di screenshot, UI, siti web, etc.; appunti visivi per inspirazione. Purtroppo ho scoperto che non esiste più, e non ho trovato un’alternativa altrettanto bella. Sto provando Dropmark, ma è una web app: mi piacerebbe che fosse in locale.

Screenie. Piccola utility che permette di accedere agli screenshot dalla menu bar, e di trascinarli da lì ovunque servano. Permette anche di evitare che vengano tutti salvati sul desktop, incasinandolo.

 

5

Adobe Creative Cloud. Mi servivano alcuni font di Typekit.

 

6

RescueTime. Traccia l’uso che faccio del Mac, e mi invia un report settimanale su quanto sia stato produttivo, dove abbia perso tempo, e quali app abbia utilizzato più a lungo. Permette anche di impostare dei traguardi (un esempio: minimo un’ora al giorno su app per la scrittura). La trovo così utile da essermi recentemente iscritto alla versione Pro. O forse bo’, mi piace guardare i grafici e credere che servano a qualcosa.

 

7

BackBlaze. Backup! In teoria la mia strategia di backup è: file fondamentali su Dropbox, backup giornaliero su BackBlaze, backup mensile via Time Machine su hard disk esterno. Ammetto che l’ultimo step a volte venga ignorato.

Hazel. È come un Roomba per Mac: lo tiene pulito, organizzando automaticamente i download, cancellando file duplicati, rimuovendo download incompleti, e spostando cose di qua e di la in base a come lo si imposta.

8

Taskpaper. Ho alcune liste di cose da fare scritte in questo formato.

Soulver. Un notepad che è anche una calcolatrice.

9

Imageoptim. Dovevo ottimizzare delle immagini.

 

10

iA Writer. Un’app che uso da tantissimo, per modificare file di testo.

Pensieri sul nuovo MacBook Pro

Dongles

Jeff Johnson nota come non sia possibile collegare l’iPhone al Mac, senza prima comprare un cavo aggiuntivo, dato che quest’ultimo è dotato solo di porte USB-C:

Apple was famous for their ecosystem integration. But out of the box you can’t plug a new iPhone into a new MacBook Pro. Absurd. Fire Tim.


Secondo Joe Cieplinski, i Mac diventeranno sempre più per pochi: Apple sembra credere che la macchina entry level per le masse sia l’iPad (Pro o non). O per porla in altri termini:

The days of the sub $1,000 Mac are done. I thought the Air would stick around for another generation because of this price tier, but then I thought about it more carefully. Low-cost PCs make almost no sense anymore. People who need the power of macOS are becoming a smaller group with every passing year. Prices will continue to reflect the shrinking market. Apple has an entry-level machine for people who are budget constrained, and it’s only $599. It’s called the iPad Pro. That machine does everything the target audience for an 11-inch Air or 13-inch Air would need and more. The MacBook and MacBook Pro 13 with no Touch Bar will cover anyone else, albeit at a slightly higher cost. The price you pay for needing more power than the average person.

Pretty soon, the only people who need macOS will be certain kinds of pros. So it’s pro machines from here on out. And those pro machines are going to keep getting more expensive. Don’t worry; you won’t be upgrading them very often.


Anche The Verge scrive che il futuro dei Mac e dei PC è costoso, una categoria di nicchia:

Here’s my interpretation of this phenomenon: Apple and Microsoft have both come to terms with the fact that people are simply never going to buy PCs — whether in desktop or laptop form, running Windows or macOS — in the old numbers that they used to. Computers are just too good nowadays, most users are already satisfied, and so the market for new PCs inevitably shrinks. And when you can’t have growth in total sales, the logical move is to try and improve the other multiplier in the profit calculation: the per-unit price and built-in profit margin. That’s been Apple’s approach for a while, and now Microsoft is joining in.


Stephen Hackett trova la nuova offerta di Apple abbastanza confusa. Forse Pro e non Pro non ha più senso: l’unica distinzione che rimane (o rimarrà) è in termini di dimensioni dello schermo — perché tutti i PC saranno per Pro, mentre per l’utenza consumer c’è l’iPad. Oltretutto, Apple non ha nemmeno menzionato l’iMac, il Mac Pro o il Mac Mini, mentre l’Air resiste ma senza alcun aggiornamento. È possibile che Apple smetta di produrre desktop? Nessun desktop può, almeno per ora, utilizzare la Touch Bar come sistema di input.

The notebook line is pretty confusing right now. There are several machines — ahem, MacBook Air — that seem to exist to hit a price point. I understand and respect that, but I am already dreading offering buying advice over the next year. Desktop Macs didn’t get a single mention, or a silent hardware update after the announcements were done. While last-minute rumors claimed that the iMac wouldn’t be ready in time, it — and the Mac mini — would have been well-served with CPU bumps and Thunderbolt 3.


Riccardo Mori, come Hackett:

Why can’t Apple leave the light & thin to the consumer line of notebooks, and offer pro notebooks that follow a more ‘function over form’ approach? What once was a clear distinction between ‘consumer’ and ‘pro’ machine, has now become something more like ‘regular’ versus ‘deluxe’ machines. Nowadays, a professional computer shouldn’t be constrained by a maximum of 16 GB of RAM. I know a few people who are barely comfortable with 32. Considering the non-trivial investment when you purchase one at its maximum tech specs, these MacBook Pros are supposed to last a few years.


Steven Levy guarda al nuovo Surface Studio di Microsoft, e lo confronta con le novità introdotte da Apple con il nuovo MacBook Pro. Ad un’analisi affrettata si potrebbe dire che Microsoft è oggi quella che innova, Apple quella che avanza con più cautela:

The difference between being the leader and the challenger is apparent in the two products introduced this week. The Surface Studio is a dramatic rethinking of the desktop computer. Also, the particular niche it targets — “creatives” in music and the graphic arts — is the exact one that Apple saw as its high-end core when it conceded the hopelessness of overtaking Microsoft on the basis of its operating system alone. And Microsoft wants to hit the classic buttons once defined by Apple’s fingerprints: lust-worthy design; painstaking attention to details; a sorcerer’s swoop of delight. Just check out its striking video for the Surface Studio — it is so influenced by Apple’s playbook that I’m surprised there’s no Jony Ive narration.

Apple claims that its new Macbook Pro is defined by a similarly impressive technological feat. And yes, the Touch Bar seems a genuine innovation, though I’m not yet sure it’s a successful one; I’ll need to use it over an extended period of time before making that judgement. But two things about it do seem clear. First, Apple has really dug its heels in on the belief that touch screens do not belong on desktop and laptop machines.

The second is that Apple is continuing a near-decade-long process of making its PC operating system act like a phone.


Forse i nuovi MacBook non hanno più il suono d’avvio, il che è una cosa tristissima.


John Gruber spiega perché, contrariamente alla direzione intrapresa da Microsoft, Apple continua ad essere convinta che i desktop non necessitino di schermo touch. Sono due sistemi di input completamente diversi — touch e mouse — per due ambienti completamente diversi. Così come il mouse risulterebbe assurdo su iPhone/iPad, toccare lo schermo di un portatile risulterebbe altrettanto scomodo (tutte le volte che ho provato un desktop touch, mi son domandato quale fosse il vantaggio):

Some people are adamant in their belief that MacBooks should and/or will eventually have touch screens, but I remain convinced that they should not and never will. Ergonomically, a vertical (or nearly vertical) display is not comfortable for touch. And even more important, MacOS was designed for a mouse pointer. That’s fundamentally different from touch. MacOS is no better suited to touch than iOS is suited to support for a mouse or trackpad pointer. (I’d even argue that touch support on the Mac would be even clunkier than mouse support on iOS.)

The Touch Bar is not the answer to “How do we bring touchscreens to the Mac?”, because that question is not actually a problem. The Touch Bar is the answer to “These keyboard F-keys are cryptic and inflexible — what can we replace them with that’s better?” That’s an actual problem.


Ho letto molti confronti fra il Surface e i nuovi MacBook Pro, e la conclusione sembra essere: guarda quanto è “nuovo” il primo, e guarda quanto sia prevedibile e banale il secondo. Seppur il Surface Studio sembri bellissimo, vorrei provarlo o leggere delle recensioni prima di esprimermi — sia perché sembra un prodotto mirato verso un’utenza specifica più che un generico PC, sia perché Microsoft è molto brava con i concept, un po’ come Google a stupire con prodotti innovativi, che poi nell’uso quotidiano o nei dettagli si rivelano pieni di lacune e frustranti. E comunque, avete provato Windows recentemente? Ho avuto a che farci lo scorso anno per l’università — cose che diamo scontate su Mac continuano ad essere complicate su Windows.

Come scrive Ben Brooks, e come disse Steve Jobs, il Mac è un “camion”: non aspettatevi rivoluzioni.

The reason people stay with Apple is not because of lock in — no that just makes the decision easier — they stay because it’s still vastly superior to all other options. This new MacBook lineup maybe be disappointing or confusing to people, but that’s only because they’ve come to expect magic with each new launch. But the truth of the matter is that it’s a laptop, and as much as you disagree, a laptop is not the future of computing, it’s the ancient hold over. It’s the truck, as Steve Jobs famously said, and I just heard a commercial for an actual new truck — they were touting an all new stronger steel bed. And so, in that way, woohoo for the ToucBar.

Apple didn’t launch a crappy product, they launched devices which still are the best option on the market. Which still have top notch industrial design. Which still have the best operating system. Which still have the best third party apps on any desktop platform. Which are still the best option for most people in the world. And frankly, if you can’t see that, then you need to go buy a non-Mac laptop and see for yourself how bad it truly is.


Anche Matthew Panzarino spiega perché un’interazione touch con un portatile né risulterebbe comoda, né servirebbe a molto. Insomma, se volete dei Mac con schermo touch probabilmente attenderete all’infinito:

These machines are not tablets; there is a work surface area and a view area. Any interaction you take on the screen has to be worth you moving your hands from your work area to the view area, obscuring a portion of the content that you’re viewing, and taking an action. The wrist rest and keyboard position also mean that you sit far back from the screen — and whether you touch a screen is almost always a function of how close your hands are to it. Most of those actions are also taken on large touch targets like the Start button and other tappable things. […]

The interaction models are also different than they are on an iOS device. On an iPad, every touch interaction is 1:1 — your finger directly manipulates stuff like volume sliders. On the MacBook, you can touch the volume button and begin sliding right away, providing you with an off-axis slider in plain view. In other words, you should be able to single tap and slide many interactions on the toolbar, while not obscuring your view of the control or content (in the case of photo thumbnails). This does not work on a touch screen.


E per ribadire il concetto: lo scopo della Touch Bar non è di essere uno schermo ma, come scrive Jason Snell, di essere un nuovo strumento di input:

Touch Bar is designed for angled viewing. The Touch Bar itself isn’t angled, but Apple designed it knowing that its primary viewing angle isn’t straight on—it’s at an angle, down on a laptop keyboard. This went into some of the aspects of its design, including changes to the structure of the glass and a special coating. The goal was to make it feel like an input device, not a display—and in fact, make it feel similar to the trackpad.


Se volete leggere qualcosa sulla Touch Bar e sull’uso che Apple si aspetta ne facciano gli sviluppatori, leggete le Human Interface Guidelines:

The Touch Bar—located above the keyboard on supported MacBook Pro models—is a Retina display and input device that provides dynamic interface controls for interacting with content on the main screen. These controls offer quick access to system-level and app-specific functionality based on the current context. For example, when the user types text in a document, the Touch Bar might include controls for adjusting the font face and size. When the user views a map, the Touch Bar could give quick, one-tap access to gas stations, lodging, and restaurants near the displayed location. A Touch ID sensor to the right of the Touch Bar allows fingerprint authentication for logging into the computer and approval of App Store and Apple Pay purchases.

A cosa serve Snapchat

Bloomberg, in un articolo titolato “Come Snapchat ha costruito un business confondendo gli adulti“:

The company says users watch roughly 8 billion videos on its platform each day, about the same number as Facebook, which has 10 times as many users as Snapchat. On a given day, according to Nielsen, 41 percent of adults in the U.S. under 35 spend time on Snapchat.

“Everybody from 14 to 24 in America, it’s either the No. 1 or No. 2 app in their lives,” after Instagram, says Gary Vaynerchuk, an angel investor and entrepreneur. Actually, it’s not just an American phenomenon: Snapchat is a top 10 most-downloaded app in about 100 countries, according to market researcher App Annie. Vaynerchuk, who has investments in Snapchat, Twitter, and Facebook, likens the excitement to that of television in the early 1960s. “The vast majority of people reading this article will have a Snapchat account within 36 months,” he says. “Even if, as they’re reading this, they don’t believe me.”

Snapchat confonde, sia perché ha un UI ridicola — gialla, con icone scelte quasi a caso, con gestures e feature semi-nascoste — sia perché ha la nomea di essere un’applicazione per scambiarsi contenuti imbarazzanti.

A confondere è soprattutto questa feature — la durata effimera degli snaps. Questa serve però più a liberarsi dal peso che tutto ciò che postiamo in rete acquista — perché “eternamente” conservato o recuperabile da chiunque — piuttosto che a scambiarsi foto di nudi. La vita effimera che accomuna tutto ciò che su Snapchat esiste — assieme al fatto che nulla è frutto di lunghe premeditazioni: non è possibile scegliere materiale dal rullino fotografico, ma tutto deve essere catturato al momento — aiuta più che altro a creare uno stream onesto di quello che ci sta succedendo. Mentre Instagr.am serve a raccontare la nostra vita attraverso filtri, editandola come più ci piace, Snapchat sembra, appare, più naturale. E se qualcosa è imbarazzante o poco interessante pazienza: già domani sarà sparito per sempre. Snapchat è Facebook senza memoria.

In realtà Snapchat non è tanto una chat — almeno io trovo che intrattenere una conservazione su lì sia quasi impossibile — quanto piuttosto un modo per raccontare la propria giornata e una finestra sulla vita altrui. La feature principale dell’app, oltre all’invio di foto o immagini a un particolare contatto, è My Story: una collezione di snap pubblici. Ciascun utente può raccontare la propria giornata postando foto o video nella propria Story. Questi snap rimarranno visibili — dai propri followers — per 24 ore.

L’UI, per quanto orripilante, asseconda lo scopo: non ci sono link esterni, contenuti da leggere, ma solo cose da guardare — i video e le immagini dei nostri amici occupano, senza interruzioni, senza fronzoli, senza possibilità di particolari interazioni, tutto lo schermo. Su Snapchat si guarda o si filma quello che si sta facendo — ma non si edita o discute troppo. Si risponde per immagini e video, in maniera quasi instantanea.

Snapchat è snobbato dagli adulti, ma solo per un fraintendimento. Quello che Snapchat sicuramente non è è un’app per inviarsi cose di cui ci vergogniamo. Lo considererei, quasi, una specie di FaceTime asincrono, o Periscope per stream senza un particolare intento. È Instagr.am e Facebook ma senza la dimensione pubblica (persino le celebrità sono difficili da trovare) e editoriale.

Non riguarda un singolo iPhone

Un riassunto per capire meglio la vicenda FBI/Apple. Prima di iniziare, però, una citazione di Bruche Schneier:

In generale, la privacy è qualcosa che le persone tendono a sottovalutare finché non ce l’hanno più. Argomenti come “io non ho nulla da nascondere” sono comuni, ma non sono davvero validi. Chi vive in un regime di costante sorveglianza sa che la privacy non è avere qualcosa da nascondere. Riguarda la propria individualità e la propria autonomia personale. Riguarda l’essere in grado di decidere cosa rivelare di se stessi e in quali termini. Riguarda l’essere liberi come individuo, senza essere costretti a giustificarsi continuamente a qualcuno che ci osserva.


L’FBI vuole accedere a dei dati contenuti dentro l’iPhone 5c di Syed Rizwan Farouk, uno degli attentatori di San Bernardino. Questi dati — messaggi, foto, etc.; cifrati — non sono stati salvati su iCloud ma si trovano dentro l’iPhone. Apple ha già dato accesso all’FBI ai dati che si trovavano su iCloud ma l’FBI ha avuto problemi a bypassare le misure di sicurezza dell’iPhone e, di conseguenza, ad accedere ai dati che risiedono solo sul device in questione.

Per accedere ai dati di un iPhone 5c sono necessari “solo” due ingredienti: il passcode dell’utente e il codice del device. A complicare le cose sono le misure di sicurezza adottate da Apple: il fatto che i dati vengano cancellati dopo 10 tentativi, o che fra un tentativo e l’altro sia necessario aspettare 5 secondi. Ci vorrebbero dunque anni per l’FBI a indovinare il codice tramite brute force (provando ogni possibile combinazione del codice).

L’iPhone in questione è un 5c, quindi senza Secure Enclave. Come spiega Ben Thompson, la Secure Enclave è un chip A7 che agisce come computer indipendente, con un proprio sistema operativo, che renderebbe molto più complesso l’accesso ai dati. Nel caso di un iPhone 6s, dotato di Secure Enclave, sarebbero necessari tre ingredienti per decrittografare i dati: la chiave del device, il passcode dell’utente e una chiave casuale, generata dalla Secure Enclave, sconosciuta a Apple stessa. Se l’attentatore avesse avuto un iPhone 6s o uno qualsiasi degli iPhone più recenti, sarebbe stato impossibile per Apple cooperare con l’FBI — anche se avesse voluto — se non inserendo una backdoor ancora più insicura e terrificante nel sistema operativo: una chiave fissa e unica. Si può fare, però, e il pericolo principale è che l’FBI sfrutti questo caso come precedente — per chiedere un qualcosa di ancora più insicuro.


L’FBI, dunque, come spiega Fabio Chiusi, vuole tre cose da Apple:

  1. Rimuovere o disabilitare la funzione di auto-distruzione dei contenuti.
  2. Consentire all’FBI di provare a inserire la password corretta (in sostanza, abilitare tentativi infiniti di trovarla, una tecnica detta “brute force”).
  3. Garantire che non ci siano le attese (delay) tra un tentativo e l’altro attualmente previste da iOS, a meno di quelle necessarie al funzionamento dell’hardware.

L’FBI chiede a Apple di disabilitare la funzione che elimina tutti i dati di un iPhone dopo dieci tentativi di accesso falliti — in modo da poter provare tutte le combinazioni possibili e accedere al device tramite brute force. Apple non può semplicemente disabilitare la funzionalità: solo l’utente (che l’ha attivata) può farlo. Affinché questa misura di sicurezza possa essere bypassata, è necessario che Apple scriva un software che sia in grado di disabilitare una delle funzionalità di sicurezza di iOS.

Il che significa — punto e basta, senza sfumature — creare una backdoor. La Casa Bianca si è difesa spiegando che in realtà vuole l’accesso a un solo, singolo, device — l’iPhone 5c in questione — ma Cook è stato ben chiaro: non è così semplice.

Il governo suggerisce che questo strumento potrebbe essere usato solo una volta, su unico telefono. Ma è semplicemente falso. Una volta creata, la stessa tecnica potrebbe essere usata ancora e ancora, su un qualunque numero di device. Nel mondo fisico, sarebbe l’equivalente di un passe-partout, in grado di aprire centinaia di milioni di lucchetti – di ristorante e banche, negozi e case. Nessuna persona ragionevole lo accetterebbe.

Una volta che Apple sviluppa questo software, crea un precedente e lo rende disponibile a qualsiasi soggetto e situazione. Rende tutti gli iPhone — di tutti i cittadini — insicuri. Potenzialmente un qualsiasi hacker potrebbe sfruttare questa falla per ottenere i dati di un qualsiasi altro utente. Non solo: un governo meno democratico potrebbe a sua volta sfruttare questa porta ai dati dei cittadini. Quando si trattano questi temi bisogna sempre ricordarsi che le misure che prendiamo dalle nostre parti hanno ripercussioni in luoghi meno liberi del pianeta.


La Electronic Frontier Foundation (nota a margine: è il momento di fare una donazione a loro se non l’avete mai fatto — io ho impostato a inizio anno una donazione ricorrente di $10. Vi mandano pure a casa una bellissima maglietta, per ringraziarvi) è intervenuta a sostegno di Apple:

Supportiamo Apple perché il governo sta chiedendo più di un semplice aiuto da parte di Apple. Per la prima volta, il governo sta chiedendo a Apple di scrivere un nuovo codice che elimina le funzioni di base di sicurezza dell’iPhone — funzioni che proteggono tutti noi. Essenzialmente, il governo sta chiedendo a Apple di creare una master key così che possa accedere a un singolo telefono. Una volta che questa chiave esiste, siamo certi che il governo chiederà di farne uso ancora e ancora, per altri telefoni, e utilizzerà questo precedente contro qualsiasi altro software o device che decida di offrire una protezione maggiore.


(Nota a margine numero due: quello che scrive Beppe Severgnigni questa mattina sul Corriere è uno schifo. Non ha senso, e dimostra che non ne capisce nulla di come funziona tecnicamente la crittografia. È approssimativo — crea disinformazione e danni attorno a un argomento già poco chiaro e complesso per il cittadino comune, spesso affrontato con disinteresse perché liquidato con un “ma io non ho nulla da nascondere”.)


Tutto ciò non ha a che fare con l’iPhone 5c in questione. Come la vicenda dell’NSA e di Snowden dovrebbe aver insegnato, l’FBI sta utilizzando il terrorismo come scusa per potere accedere ai dati di chiunque quando gli pare e piace, quando ritengono necessario.

Apple si trova in una posizione unica rispetto alle altre aziende tecnologiche di simili dimensioni: il suo business model non dipende minimamente dai dati degli utenti e per questo può lottare per lasciarli a chi appartengono. La risposta del CEO di Google è — in confronto — debole: piena di could (e fornita via twitter…???).


La crittografia va difesa anche se a farne uso sono anche i terroristi. L’anche, in quella frase, è importante: perché la crittografia giova innanzitutto noi, i cittadini.

Anche se Apple venisse costretta a inserire una backdoor nell’iPhone un’organizzazione terroristica troverebbe (o potrebbe sviluppare) alternative per comunicare in sicurezza. Così facendo, il cittadino normale ci rimetterebbe senza alcun vantaggio per la sicurezza generale.

Come spiega Dan Gillmor:

Un giorno si potrebbe venire a sapere che un terrorista ha usato sistemi potenti di criptaggio, e la risposta giusta sarebbe: “Sì, lo ha fatto, ma dobbiamo comunque proteggere questi sistemi di criptaggio, perché indebolirli peggiorerebbe soltanto le cose.” Perché? Perché il criptaggio è davvero una questione semplice, non importa quanto funzionari legislativi desiderosi di diffondere la paura o politici codardi e ostinatamente ignoranti vadano sbandierando sul bisogno di backdoor nelle comunicazioni protette. La scelta è fondamentalmente binaria per molti esperti in materia. Non si possono alterare i sistemi di criptaggio in maniera significativa senza renderci tutti meno sicuri, perché i cattivi poi sfrutteranno le vulnerabilità introdotte nel processo. Non è una questione di sicurezza verso privacy, come gli esperti hanno spiegato ormai innumerevoli volte, è una questione di sicurezza contro sicurezza.

16 tesi per un mondo “mobile”

Sono passati nove anni dal primo iPhone e alcune situazioni e conseguenze della “rivoluzione mobile” sono oramai state assodate — Apple e Google dominano le due maggiori piattaforme, Facebook è completamente passato a mobile ed è chiaro che il futuro risiede su internet e mobile.

Benedict Evans propone 16 tesi da cui partire, per capire cosa succederà nel futuro prossimo:

  1. L’ecosistema tecnologico esistente ruota attorno ai dispositivi mobili. Basta vedere il numero di utenti, che è 10 volte superiore a quello dei personal computer.
  2. Mobile = Internet. Dovremmo smettere di parlare di internet mobile e internet su desktop, esattamente come non parliamo più di televisione a colori e televisione in bianco e nero. La versione mobile non è, oramai, più limitante ma offre uguali — se non maggiori — vantaggi.
  3. I dispositivi mobili non hanno nulla a che fare con le dimensioni dello schermo e i PC non sono strettamente legati alle tastiere — mobile significa ecosistema mobile e questo ecosistema assorbirà il PC. I dispositivi mobili finiranno con l’assumere sempre più dei compiti che oggi affidiamo ai computer tradizionali.
  4. Avremo per sempre bisogno di un mouse e di una tastiera, di Excel e Powerpoint, per essere produttivi? Probabilmente no. Il software si adatterà. Questi sono solamente strumenti, e ne inventeremo di nuovi.
  5. Microsoft è capitolata. In passato tutto ruotava attorno a Office e Windows.
  6. Apple e Google hanno entrambe vinto, ma è complicato.
  7. Il problema di come filtrare l’informazione è sempre più centrale. In passato tutto ruotava attorno alla ricerca e al browsing — oggi piattaforme come Facebook e soluzioni basate su AI stanno tentando di inserirsi per risolvere il problema.
  8. C’è una discussione in corso se il futuro stia nelle applicazioni o nel web. L’unica domanda da porsi è: le persone vogliono la tua icona sul loro smartphone?
  9. La fine di Netscape, e del PageRank. Per 15 anni il web è rimasto abbastanza ben definito, dal browser, dalla tastiera e dal mouse. Internet e web per la maggior parte delle persone sono stati dei sinonimi. Oggi c’è più confusione. C’è bisogno di un nuovo modo per cercare e scoprire l’informazione — per raggiungere gli utenti.
  10. I messaggi come piattaforma. WeChat ha costruito un’intera piattaforma attorno a un’applicazione per inviare messaggi, e Facebook sta facendo lo stesso con Messenger: entrambe offrono un modello alternativo all’App Store e al web, senza il problema dell’installazione. Una conseguenza importante è l’unbundling, lo spacchettamento: dei contenuti dalle applicazioni e dai siti dentro messaggi e notifiche.
  11. Il futuro incerto degli OEM di Android — di quei produttori di smartphone che fanno affidamento su Google e Android. L’OS è sempre più la via d’accesso a contenuti e servizi: chi lo controlla, controlla anche quest’ultimi.
  12. Così come i nostri nonni sarebbero stati in grado di elencarci tutti i dispositivi che possedevano dotati di un motore e noi non lo facciamo più (perché ne abbiamo troppi), oggi sappiamo quali dispositivi possediamo che si connettono alla rete ma, in un futuro, non lo sapremo più. Alcune di queste applicazioni ci sembreranno assurde — così come sarebbe potuto apparire assurdo abbassare un finestrino con un pulsante — ma verranno implementate, perché non costerà nulla e sarà comodo.
  13. Macchine che si guidano da sole. Arriveranno e cambieranno tutto: il nostro rapporto con la macchina — come la utilizziamo e chi la possiede — e le città, le strade stesse.
  14. La televisione e il salotto: sono anni che si parla di TV connessa a internet, e pare che finalmente stia per succedere.
  15. Gli smartwatch sono ancora a uno stadio embrionale, un accessorio dello smartphone.
  16. E come al solito, il futuro è diversamente distribuito: alcune persone ignorano certe tecnologie, tecnologie vecchi tornano di moda (vinili), e ogni tecnologia appare diversa a seconda del luogo da cui la si osserva. Il futuro è diversamente distribuito, ma lo è anche il nostro interesse nel futuro.

La crittografia va difesa, anche se la usano i terroristi

Dan Gillmor, tradotto da Valigia Blu:

Un giorno si potrebbe venire a sapere che un terrorista ha usato sistemi potenti di criptaggio, e la risposta giusta sarebbe: “Sì, lo ha fatto, ma dobbiamo comunque proteggere questi sistemi di criptaggio, perché indebolirli peggiorerebbe soltanto le cose.” Perché? Perché il criptaggio è davvero una questione semplice, non importa quanto funzionari legislativi desiderosi di diffondere la paura o politici codardi e ostinatamente ignoranti vadano sbandierando sul bisogno di backdoor nelle comunicazioni protette. La scelta è fondamentalmente binaria per molti esperti in materia. Non si possono alterare i sistemi di criptaggio in maniera significativa senza renderci tutti meno sicuri, perché i cattivi poi sfrutteranno le vulnerabilità introdotte nel processo. Non è una questione di sicurezza verso privacy, come gli esperti hanno spiegato ormai innumerevoli volte, è una questione di sicurezza contro sicurezza. […]

È triste, ma pochi media mainstream hanno cercato di spiegare il problema del criptaggio in modo aderente alla realtà. Citare persone che mentono è già abbastanza brutto, ma non spiegare la realtà può essere anche peggiore.

I giornalisti, in generale, non hanno ricordato al pubblico che usiamo sistemi potenti di criptaggio ogni giorno facendo shopping online. Non hanno spiegato perché i whistleblower, che con coraggio raccontano al pubblico e alla stampa il pessimo comportamento dei governi, delle corporation o di altre grandi istituzioni, sono in grave pericolo in uno stato di sorveglianza. Non hanno unito i puntini fra la copertura sensazionalistica dell’episodio di hacking alla Sony e il bisogno delle aziende di fare affari in modo sicuro, ad esempio. Abbiamo bisogno di sicurezza maggiore e migliore nelle nostre vite, non minore e peggiore.

L’argomento “la crittografia è pericolosa perché anche i terroristi possono farne uso” è alquanto stolido: togliere la crittografia di default ci renderebbe tutti più insicuri, ma non impedirebbe a organizzazioni terroristiche di ricorrervi. Queste potrebbero utilizzare gli strumenti distribuiti da altri paesi, dove la crittografia non sarebbe illegale, o costruirsene di propri (e di fatto, lo fanno).

In difesa di quest’assurdità ho letto uno degli articoli più stupidi su cui mi sia capitato di posare gli occhi negli ultimi anni, sul Telegraph solo settimana scorsa, dal sobrio titolo “Perché la Silicon Valley sta aiutando gli jihadisti?“. Di seguito un allucinante paragrafo:

What will it take? 129 dead on American soil? 129 killed in California? What level of atrocity, what location will it take for the Gods of Silicon Valley to wake up to the dangerous game they are playing by plunging their apps and emails ever deeper into encryption, so allowing jihadists to plot behind an impenetrable wall? […]

It goes back to Edward Snowden, the weaselly inadequate whose grasp for posterity has proved a boon for Isil. They should be gratefully chanting his name in Raqqa, for it was Snowden’s revelations about government surveillance methods that triggered this extraordinary race towards deeper encryption.

Provo vergogna a copiare e incollare quelle frasi su queste pagine — mi chiedo come si possa concepire di scriverle. La risposta di TechDir è alquanto ficcante:

How many hacked credit cards, medical information and email accounts will it take for the Gods of Silicon Valley to wake up and recognize they need to better protect user data. Because that’s what’s actually happening. Encryption is not about “allowing jihadists to plot behind an impenetrable wall” it’s about protecting your data. […]

But, more to the point, undermining encryption makes everyone significantly less safe. The whole idea that weakening encryption makes people more safe is profoundly ignorant.

La sorveglianza di massa non è la soluzione al terrorismo, e il modo in cui la stampa generalista la sta affrontato è piuttosto sconfortante. Considerato poi che sono argomenti che, generalmente, suscitano sbadiglio.

Credere che si possa stare, sorvegliando tutti, completamente sicuri è un’idea fanciullesca. Non bisogna, come scrive Luca De Biase, rinunciare alla libertà:

Si può sostenere che la riduzione di libertà introdotta con la sorveglianza di massa possa essere temporanea, fino alla fine della guerra. E che aumenti le probabilità di scoprire e contrastare i terroristi. Oppure si può sostenere che quella riduzione di libertà tende poi a diventare stabile e che la sorveglianza di massa non faccia che aumentare il potere dei servizi segreti. L’esperienza aiuta a capire quale sia la valutazione giusta.

L’esperienza americana è chiara. La sorveglianza tecnologica “di massa” era stata introdotta, con Echelon, molto prima dell’11 settembre 2001. E la Nsa aveva iniziato il suo progetto di sorveglianza via internet prima del più terribile atto di terrorismo della storia americana. Secondo alcune inchieste (vedi Washington Post), in più occasioni è stato provato che le notizie potenzialmente utili per fermare i terroristi erano in possesso dei servizi americani, archiviate da qualche parte e non utilizzate a dovere. Anche per la scarsa collaborazione tra servizi, dovuta a una certa loro idea di potere. Dopo di allora, l’attività di sorveglianza di massa dell’Nsa si è sviluppata oltre ogni senso del limite, come ha provato Edward Snowden. E il tentativo di sradicare la sorveglianza di massa operato in qualche occasione dall’attuale amministrazione si è arenato di fronte al “ricatto” dei servizi formulato in modo tale da far pensare che ridurre quella sorveglianza significhi aumentare i rischi di attentati.

Lo Steve Jobs di Sorkin

Steve Jobs, il film, è vagamente basato su Steve Jobs, l’uomo. E questo su ammissione stessa di Sorkin, il regista, come ha ricordato in più e più interviste. A Steven Levy, per esempio, ha risposto così:

This isn’t The Steve Jobs Story. And it was never intended to give you all the facts about Steve’s life. And your first clue to that  —  because I want to make sure that the audience wasn’t mistaking it for anything else  —  is that we made no attempt to have the actor in any way do a physical impersonation of Steve Jobs. He doesn’t look like Steve Jobs, we didn’t ask him to speak like Steve Jobs. There is a joke about “insanely great” but I didn’t write in any of the Jobs-isms. It’s just not that movie.

Ok, non un documentario, non è una biopic. Riprende solo un frangente della vita di un uomo, seppur quel frangente sia adattato — con eventi e situazioni mai verificatesi — alle necessità della storia che Sorkin si è inventato, contenga diverse finzioni e inesattezze, e finisca col ridurre la personalità di Steve Jobs a pochi schemi collaudati: il bastardo intrattabile abbandonato dalla famiglia, il padre che non ha riconosciuto la figlia, presentato come il direttore d’orchestra che non sa fare bene nulla se non comandare gli altri e distorcere la realtà. È un po’ una soap opera, anche per la scelta degli eventi su cui il regista si è focalizzato: il rapporto padre e figlia, tagliando fuori tutto il resto.

Sorkin semplifica Steve Jobs, riconducendolo a quel poco su di lui che il pubblico già sa — riportando la sua figura dentro le letture trite e ritrite che i media hanno dato di Steve Jobs, di fatto non aggiungendo nulla di proprio nella comprensione di questa figura: chi è stato e cos’ha fatto. Non aggiunge nulla né sul lato umano — anzi, lo riduce a uno stronzo arrogante, pieno di sé, incapace di migliorarsi — né su quello innovativo e tecnologico — alla fine, uno si domanda come quest’uomo abbia potuto portarci il Macintosh, l’iPod, l’iPhone, etc. Cos’ha fatto Steve Jobs, e perché in molti lo rimpiangono? Andate a vedere il film e ne uscirete più confusi di prima, senza una risposta, probabilmente con una piccola convinzione: che il successo, Steve Jobs, non se lo sia meritato.

Steve Jobs esce sminuito dal film. Non si capisce cosa faccia, a che serva, perché sia stato importante o cosa abbia portato a Apple se non un’ossessiva ossessione per i dettagli e una personalità urtante. NeXT è, secondo Sorkin, il piano diabolico e personale per tornare dentro Apple — non un’azienda che ha avuto un’esistenza propria per 12 anni. Pixar non esiste. E l’iPhone non viene nemmeno menzionato perché il film si ferma al 1998. La maggior parte dei dialoghi che occupano grande rilievo nel film — con Hertzfeld, Wozniak e Sculley — sono inventati. Ah, e tutti, più o meno, non lo sopportano.

Aaron Sorkin ha deciso di fare un film leggermente basato su Steve Jobs, dipingendolo in luce negativa. Sceglie eventi a proprio piacimento e ne scarta altri a suo dire irrilevanti. Come scrive Walt Mossberg:

Sorkin chose to cherry-pick and exaggerate some of the worst aspects of Jobs’ character, and to focus on a period of his career when he was young and immature. His film chooses to place enormous emphasis on perhaps the most shameful episode in Jobs’ personal life, the period when he denied paternity to an out-of-wedlock daughter.

Dirò una cosa: il film, per quelle due ore in cui mi sono trovato chiuso al buio nella sala cinematografica, mi è piaciuto. È suddiviso in tre scene principali, che si svolgono poco prima di un keynote: quello del lancio del Macintosh, quello del lancio di NeXT e il keynote del 1998 in cui Steve introduce il primo iMac, trasparente. Al solito con Sorkin, tutto ruota attorno ai dialoghi serranti e scontri incalzanti. Dialoghi e situazioni, però, perlopiù inventate.

Nel buio della sala, il film mi ha preso. Poi, una volta finito, mentre le luci tornavano in sala e mi avviavo all’uscita, ho colto i mormorii degli altri spettatori. Il sentimento generale, avrebbe potuto riassumersi in: “hai visto che gran bastardo?” E “e quindi perché lo celebriamo?“.

E questo mi ha dato un gran fastidio. Perchè Sorkin può anche ripetere centomila volte che non si tratta di una biopic, a The Verge e Medium, ma lo spettatore medio non andrà a leggersi The Verge o Medium: uscirà piuttosto dalla sala cinematografica convinto di essersi visto una sintesi di quella che è stata la vita di Steve Jobs, e di averne compreso persona e idee. Dato che il film s’intitola Steve Jobs e in nessun momento, nella pellicola, un disclaimer avvisa lo spettatore che i fatti narrati nel film non si sono mai svolti il dubbio non viene mai instillato nello spettatore. È inutile che poi Sorkin si difenda nelle interviste: magari un avviso sulle fabbricazioni, nella pellicola, all’inizio o alla fine lo si sarebbe potuto mettere, no?

Il mio problema con lo Steve Jobs di Sorkin è — come scrive FastCompany — che il film aiuta a solidificare una lettura e comprensione dell’uomo Steve Jobs molto semplicistica. Lo Steve Jobs dipinto da Sorkin non avrebbe mai potuto salvare Apple: è una caricatura, costruita e tenuta in piedi grazie a molte omissioni. È la narrazione da bar di Steve Jobs, la mitologia, quella che verte attorno agli episodi di scontro e discordia ma tralascia tutti i pezzetti importanti che gli hanno permesso di diventare Steve Jobs, di costruire Apple e di costruire se stesso.

Come scrivono su FastCompany:

The film’s title character is a one-trick pony, a grandstanding egotist who gets great work out of people by charming them or berating them. Humans stand in the way of his unchanging genius, at least until that unconvincing reunion with Lisa at the end. It’s an old and unsophisticated view that’s been trotted out since the early days of Apple. The fact that Sorkin’s dialogue crackles with energy under Danny Boyle’s direction doesn’t make it any more authentic.

The Steve Jobs portrayed in Steve Jobs could never have saved Apple. In the perpetually changing technology industry, simple stubbornness is the kiss of death. Sorkin has created a caricature, an entertaining and modern take on the archetypal tortured business genius. It’s kind of fun, especially for people who don’t know much about how business gets done. But characters like the “Steve Jobs” of this movie don’t last long in business—they burn out, or they get thrown out.

Nelle intenzioni di Sorkin potrebbe non esserci mai stata quella di tentare di capire cosa abbia permesso a Steve Jobs di diventare Steve Jobs, di passare dallo Steve Jobs ventenne arrogante e pieno di sé a qualcosa di più. Sorkin si ferma lì: allo Steve Jobs iniziale. Non c’è evoluzione.

È triste sapere che un mucchio di gente lascerà una sala cinematografica convinta di conoscere quella che, di fatto, è una finzione. Lo Steve Jobs di Sorkin aiuta a cementificare una narrazione attorno alla figura di Steve Jobs che in questi anni non ha fatto che semplificarlo e ridurlo. Il film sarà anche tecnicamente ottimo, e la storia narrata ben congegnata, ma non si possono ignorare i danni che fa attorno alla narrazione e comprensione della figura di Steve Jobs.

Attraverso i Google Cardboard

Ho provato la realtà virtuale, e per farlo mi è bastato il mio iPhone e un pezzo di cartone. Il pezzo di cartone sono i Google Cardboard, un prodotto lanciato da Google quasi due anni fa e recentemente aggiornato per funzionare in ugual modo sia con Android che con iPhone[1. La versione 1 dei Cardboard funzionava maluccio con l’iPhone].

Sono la via più economica per dare uno sguardo dentro la realtà virtuale senza dover investire troppi soldi. Quelli che ho scelto io, su Amazon, costano £15 e sono prodotti da I Am Cardboard. Infatti Googla rilascia semplicemente le specifiche tecniche: a produrli, i Cardboard, sono altre aziende.

I Cardboard sono, di fatto, una scatoletta di cartone con delle lenti e, sul fronte, un vano in cui riporre lo smartphone. Si assemblano in pochi attimi, hanno un aspetto che non intimorisce, e basta portarseli agli occhi per iniziare ad usarli — avendo cura di aprire, prima, sul dispositivo, una delle applicazioni apposite. La seconda iterazione dei Cardboard presenta un bottone sul lato superiore per navigare all’interno delle applicazioni, o per spostarsi dentro i vari paesaggi virtuali. Per camminare, si preme quel bottone (che altro non fa che tappare sullo schermo al posto vostro). Tutte le rimanenti interazioni col device avvengono, beh, muovendo la testa — sfruttando il giroscopio.

Stando alle mie precedenti, limitate, esperienze con i Samsung Gear VR sono rimasto piacevolmente stupito per la qualità che, per così poco, è possibile ottenere. Non sono perfetti — entra un po’ di luce dai lati, e in certi casi/con certe app lo schermo dell’iPhone non è molto a fuoco — ma per qualcosa fatto di cartone e a questo prezzo davvero non ci si può lamentare.

L’applicazione ufficiale di Google è interessante le prime volte che li si usa, per esplorare le potenzialità. Offre un kaleidoscopio, alcuni oggetti 3D e altre cose fatte più che altro per impressionare. Dopo, a parte tirarla fuori quando degli amici vogliono provarli anche loro per la prima volta, si rivela abbastanza inutile.

Al contrario, un ottimo lavoro l’ha fatto Vrse, che ha creato dei brevi video, a 360° gradi. Il New York Times ha recentemente avviato una collaborazione con Vrse, e per questo poche settimane fa ha lanciato un’app che contiene diversi documentari immersivi (ha anche inviato a ciascun abbonato al cartaceo, per promuoverla, un Cardboard gratuito). I documentari su New York Times VR sono belli, affascinano, informano e sperimentano con questo nuovo mezzo in un modo interessante — forse, aiutano anche ad empatizzare di più con le notizie. Mi raccomando: le cuffie sono d’obbligo per un’esperienza più immersiva.

La cosa che però più mi affascina, e di fatto ciò che mi fa tornare e spinge verso i Cardboard, è Street View. L’applicazione (anche quella per iOS, da Ottobre) ha un bottone per la realtà virtuale: premendolo, adatta Google Street View ai Cardboard permettendo così di camminare per le vie di qualsiasi città. L’altro ieri avevo nostalgia di Pisa — non ci vado da un po’, e volevo rivedere le vie che due anni fa percorrevo tutti i giorni — così mi sono fatto un giro per la città; poco fa invece gironzolavo per le strade di Tokyo. Col bottone — quello menzionato, posto sul lato superiore dei Cardboard — si cammina. Per il resto, basta meravigliati girare la testa a destra e sinistra per guardarsi attorno.

Google non ha dato molta importanza ai Cardboard — li considerano più che altro, credo, un esperimento. Eppure io lo trovo un esperimento meglio riuscito dei, ad esempio, Google Glass. I Cardboard sono l’esempio di un prodotto che mi aspetterei da Google. Sono eccitanti e futuristici, aperti e quasi gratuiti. Semplici, ma pure nella loro semplicità riescono a stupire.

Li consiglio.

Twitter mi ha stancato

Ho (quasi) completamente smesso di utilizzare Twitter. È successo pian piano, e non intenzionalmente. Ho iniziato scrivendoci sopra meno frequentemente, passando da utente attivo a passivo. Osservando la timeline, limitandomi a dare una stellina o due al giorno, a retwittare al massimo. Quei pochi tweet fatti di testo sono diventati meno interessanti di un tempo: più impersonali. Ho iniziato col twittare solo link ed immagini, che è quello che vuole Twitter oggi: meno parole, più contenuti. All’inizio il mio twittare era fatto di opinioni, pensieri e riflessioni personali; oggi è fatto di link e retweet.

Tweetbot — il client che uso da anni — è ancora nella prima schermata del mio iPhone, ma solo per abitudine: perché, dal 2006, Twitter è stata una presenza costante. Ho conosciuto persone su Twitter, ho interagito con tanti lettori di questo blog. Credo il mio rapporto con Twitter perduri per abitudine, affezione, più che per ciò che oggi ne traggo.

Purtroppo, mi sento di condividere le parole di Umair Haque:

We once glorified Twitter as a great global town square, a shining agora where everyone could come together to converse. But I’ve never been to a town square where people can shove, push, taunt, bully, shout, harass, threaten, stalk, creep, and mob you. […]

What really happens on Twitter these days? People have self-sorted into cliques, little in-groups, tribes. The purpose of tribes is to defend their beliefs, their ways, their customs, their culture — their ways of seeing the world. The digital world is separated into “ists” — it doesn’t matter what, really, economists, mens-rightists, leftists, rightists — and those “ists” place their “ism” before and above all, because it is their organizing belief, the very faith that has brought them together in the first place.

Twitter, come strumento per conversare e raggiungere chiunque, negli ultimi anni mi ha deluso. Il passaggio da social network per tutti a social network ottimizzato per celebrità l’ha impoverito. L’incapacità di migliorarsi, non solo per pubblicitari e Taylor Swift, l’ha reso più scemo. Su Twitter si grida. La piattaforma non promuove più le conversazioni ma soprattutto promozioni e litigi. Non è più fatta per gli utenti, ma per i pubblicitari.

L’idea alla base di Twitter è ancora valida, solamente a questo punto ho grosse perplessità che sarà Twitter a realizzarla pienamente. Twitter è stato, per un periodo di tempo, lo strumento migliore per avviare una conversazione su internet — il modo più rapido e sicuro per raggiungere qualcuno. Per me, se non altro, era soprattutto quello: un luogo per conversare; la facilità e rapidità con cui è possibile intromettersi in uno scambio di tweet senza dover prima chiederne il permesso. Ma basta guardare a cos’ha lavorato Twitter negli ultimi anni per capire che le priorità sono state altre. L’ultimo sforzo inutile sono i sondaggi nativi. Invece di migliorare le conversazioni, lo sforzo è andato a concentrarsi nell’assomigliare più ad altri social network, alle alternative. Insomma, negli ultimi anni Twitter si è impoverito e non ha fatto nulla per risolvere quei problemi che rovinano il suo prodotto principale: le conversazioni — problemi come abuso, o difficoltà per utenti non esperti e casuali di estrarre utilità dalla piattaforma. La timeline è Twitter, e il lavoro sulla timeline è stato molto debole — le difficoltà che c’erano nel 2006 nel restare aggiornati perdurano nel 2015. Anche il nuovo Twitter Moments è deludente: ricorda, per implementazione — così visuale, pieno di media e privo quasi di testo —, più Snapchat che Twitter. Invece di essere fatto e basato sulle conversazioni degli utenti sembra essere fatto dalle conversazioni di un gruppo di persone verificate e testate selezionate.

Nel 2015, Medium sembra uno strumento più adatto per parlare con qualcuno. Molto lavoro nell’ultimo anno è andato proprio in questa direzione: a sembrare meno una pubblicazione editoriale, e più un network di persone che parlano fra loro. Medium è un social network che facilita la conversazione, e che nel frattempo pone anche attenzione sulla qualità della conversazione. I suoi contenuti sono facili da ritrovare senza dover avere un client sempre aperto.

Ho iniziato dicendo che ho smesso di twittare, se non raramente. Mi accorgo però che ultimamente ho anche smesso di leggerlo, Twitter. Le conversazioni che un tempo seguivo con attenzione oggi avvengono — e si rivelano più proficue — altrove senza tutto quel rumore di fondo. Spesso, quell’altrove è Medium.

Dropbox è ancora rilevante?

Ultimamente Dropbox viene frequentemente criticato — oltre a basarsi su un modello di business poco redditizio (lo storage è quasi gratuito, e venderlo non rende), il servizio offre una soluzione a un problema che non sussiste più (la gestione dei file), ritrovandosi a competere con iCloud, Google Drive e simili — alternative che per la maggior parte degli utenti sono sufficientemente buone. E nonostante tutto ciò, Dropbox ha una valutazione che raggiunge i 10 miliardi di dollari.

Il problema principale di Dropbox, tuttavia, è se serva ancora oppure sia diventato una mera funzione del sistema operativo (come disse Steve Jobs). Da quando i file e il file system sono diventati meno centrali, Dropbox ha tentato di reinventarsi come hub collaborativo; strumento per condividere file e collaborare con i propri colleghi. Ma, sottolinea Casey Newton su The Verge, sincronizzare i file continua a essere il suo core, ciò in cui eccelle (mentre nella collaborazione lascia a desiderare, a confronto di Google Drive) — e ciò in cui eccelle sta velocemente diventando irrilevante:

But after years of investment and exploration, syncing files is still the only thing Dropbox does well. Steve Jobs knew this: he famously told Houston (while trying to acquire it) that his company was “a feature and not a product.” As Dropbox rocketed to 400 million users, Jobs’ viewpoint was easy to dismiss. But as its rivals caught up, and Dropbox began casting about for its next act, Jobs has come to look more prescient. Dropbox’s consumer products are losing their luster, and their business products lag well behind their competitors.

Dropbox potrebbe perire non perché arriverà qualcuno con un sistema per sincronizzare i file migliore del loro, ma semplicemente perché agli utenti (e alle aziende, di maggiore interesse a Dropbox) non interessa più questo tipo di prodotto. In un’analisi piuttosto illuminante, Benedict Evans (parlando di Office, e più in generale dei “file”) notava come il pericolo principale, per prodotti come Office, non sia tanto un Office migliore di quello di Microsoft, ma un prodotto che introduca un nuovo modo di fare le cose:

Hence today, in a thousand companies, a thousand execs will pull data from internal systems into Excel, make charts, put the charts into PowerPoint, write some bullets and email the PowerPoint to a dozen other people. What kills that task is not better or cheaper (or worse and free) spreadsheet or presentation software, but a completely different way to address the same underlying need – a different mechanism.

That Powerpoint file could be replaced by a web app for making slides that lets two people work on it at once. But it should be replaced by a SaaS dashboard with realtime data, alerts for unexpected changes and a chat channel or Slack integration. PowerPoint gets killed by things that aren’t presentations at all. The business need is met, but the mechanism changes. You can see some of these use cases in the suggestions in the ‘File/New’ menu. Each of these is a smartphone app or a web service – the unbundling of productivity apps. And none of these have to be ‘spreadsheets’.

PowerPoint gets killed by things that aren’t presentations at all.” Nel caso di Office (e dei file: Dropbox), uno di questi nuovi modi di fare le cose è Slack — utilizzato sia come sistema per collaborare sui file (ciò che Dropbox vorrebbe essere), che per andare a ritrovarli mesi dopo. I file non più organizzati per cartelle, ma inseriti all’interno dello stream della conversazione, con tutto il contesto disponibile. Scrive Evans, in un altro articolo sull’argomento:

Slack is a person-to-person messaging platform that’s more than messaging – through third-party integrations, it acts as a common aggregation layer for every other system in an enterprise. All the messages, updates and notifications from the dozens of other systems in a company can be inserted into the relevant team or project chat channels, and then be scanned through or searched later on. Slack is effectively a networked file manager, but instead of folders full of Photoshop, Word or Excel files you have links to Google Docs, SAP or Salesforce, all surrounded by the relevant context and team conversation.

L’Apple Watch è un telecomando

Luca Sofri:

Mi chiedo spesso come fu quando arrivò il telecomando della tv: mi ricordo il primo che vidi, lo si incastrava in una specie di alloggiamento del televisore dei miei nonni, quando non era usato. Era grosso e pesante, più largo che lungo, con sedici tasti colorati per sedici canali. Ma non mi ricordo bene la percezione del cambiamento, probabilmente si accompagnò alla crescita del numero dei canali visibili. Prima c’erano pochi canali da cambiare, non si faceva zapping, e ci si alzava poco per andare a premere il tasto sul televisore (un CGE, a casa mia). Poi non ci si alzò più, e non ci siamo ancora alzati. […]

Watch è il telecomando, non il televisore. Dopo poche ore che lo usi e non hai mai dovuto estrarre iPhone della tasca – né in alcuni casi premere o toccare niente – per leggere i messaggi arrivati, vedere che prossimi impegni hai, rispondere al telefono e telefonare, cambiare canzoni in cuffia, comunicare su Skype, e altre cose ancora, capisci che quello che è arrivato è il telecomando del televisore, come quella volta là.

Trovo il paragone molto calzante, seppur considererei l’Apple Watch il telecomando non dell’iPhone ma del mondo circostante. Come ha notoriamente detto Marc Andreessen, software is eating the world, e affinché ciò avvenga è necessario un modello d’interazione immediato con il software (sì, più immediato di uno smartphone, per quanto già comodo).

L’Apple Watch, un wearable, abilita questa possibilità. Quello che per me Watch è — sarà, una volta che il suo potenziale sarà ben chiaro — è un telecomando per il famoso internet delle cose di cui si parla da anni. Perché un mondo connesso alla rete funzioni — mi riferisco a lampadine WiFi, e cose più utili — ci serve un dispositivo che ne permetta un’interazione immediata. Credo HomeKit e Apple Pay rivelino che Apple stessa abbia intenzione di puntare verso quella direzione.

(Sono in fermento per la prossima settimana, quando potrò salire e scendere dai bus, e entrare in metropolitana, con l’oggetto. Quello per me è già un esempio di ciò di cui parlo sopra.)

Il prossimo Apple Watch (speriamo sia lontano)

Circolano già rumors sul prossimo Apple Watch. Mark Gurman, su 9to5mac, dice che potrebbe avere una fotocamera frontale (per videochiamate via FaceTime) ed essere più indipendente dall’iPhone — ad esempio riuscendosi a collegare direttamente al WiFi. La seconda cosa sarebbe bellissima, la prima del tutto superflua.

Al di la di questo — ho ricevuto il mio meno di una settimana fa, e chi ha voglia di parlare di rumors del prossimo Apple Watch quando il primo ancora non è in vendita in molti Apple Store? — l’unico rumors interessante è quello relativo alla data di lancio. Si parla di 2016, e quasi quasi spero si vada a metà 2016 se non oltre.

Il ciclo annuale di ricambio dei nostri device non è sostenibile per ogni prodotto. Ha senso per l’iPhone, contesterei che abbia senso per l’iPad, ma sono quasi convinto non abbia senso per un wearable. L’Apple Watch non vuole proporsi come mero gadget, la tecnologia interna è solo parte della motivazione dietro l’acquisto: componente altrettanto fondamentale è lo stile, il design; in altre parole l’orologio in quanto tale.

Apple vende l’Apple Watch paragonandolo agli orologi tradizionali, e offrendo modelli costosissimi. Se vuole che questa strategia abbia successo deve anche, a parer mio, staccarsi dal ciclo annuale di aggiornamenti — spesso un obbligo, più che una necessità. Per riuscire a proporre l’Apple Watch come un orologio deve anche riuscire a renderlo più duraturo del tempo. Non dico che non debba diventare obsoleto, ma che per lo meno non lo diventi nel giro di un anno.

Un aggiornamento all’OS, come quello in arrivo in autunno, potrebbe essere più che sufficiente, un buon modo per accontentare gli scontenti. Per l’Apple Watch con FaceTime invece possiamo aspettare.

L’intervista di John Gruber a Phil Schiller

Da un paio d’anni mi sono lentamente sempre più disaffezionato ai keynote di Apple. Li seguo, sto attento a tutto quel che succede, spesso mi entusiasmo per i contenuti (i prodotti presentati o features discusse), ma ne apprezzo sempre meno l’esecuzione: il modo in cui il tutto è presentato, abbastanza sofferente da seguire per l’alto numero di battute (ma sono necessarie? A quale pro? Che Apple è un’azienda divertente?) e per i toni eccessivamente eccitati (tutto è grandioso, ogni update — anche il più stupido — ha bisogno di essere preceduto da un “fantastico” per essere descritto); entrambe cose che mi rendono il keynote meno umano e più costruito.

Per questo, l’intervista di John Gruber a Phil Schiller è una ventata d’aria fresca. Gruber è riuscito a intervistare, per un episodio del suo podcast (The Talk Show), Phil Schiller, il quale si è reso disponibile a rispondere a qualsiasi domanda Gruber desiderasse. Gli ha chiesto perché vendano ancora iPhone da 16GB (pare per convincerci ad utilizzare iCloud!), cosa ne pensa — e se crede esista — sul declino della qualità del software Apple e quando vale la pena compromettere la sottigliezza di un device a favore della batteria. Schiller ha risposto in maniera onesta, genuina, e dimostrando di leggere e ascoltare molte delle voci che discutono e parlano di Apple online.

Come scrive Marco Arment (una delle voci che Schiller ha menzionato):

Apple is just people. Their usual communication style makes that hard to see and easy to forget.

Phil’s appearance on the show was warm, genuine, informative, and entertaining.

It was human.

And humanizing the company and its decisions, especially to developers — remember, developer relations is all under Phil — might be worth the PR risk.

L’episodio è online. Guardatelo, è molto meglio del keynote di lunedì.

Perché l’esperienza d’uso di iOS 8 è inferiore a quella di iOS 7

L’esperienza d’uso di iOS 8 è peggiore rispetto a quella iOS 7, secondo Dmitry Kovalenko (Lead Designer di Readdle), e questo perché è cambiata la dimensione del dispositivo — iPhone 6 e iPhone 6 Plus sono notevolmente più grandi dell’iPhone originale — mentre l’interfaccia non è stata ripensata in modo da accomodare questo cambiamento.

Il cambiamento nelle dimensioni del device porta, inevitabilmente, a un cambiamento nel modo in cui lo teniamo in mano, e di conseguenza usiamo. I modelli di comportamento instaurati con le precedenti versioni di iOS non funzionano più dall’iPhone 5 in poi.

Secondo una ricerca di Steve Hoober, l’85% degli utenti usa lo smartphone con una mano sola:

Questo significa che, nella maggior parte dei casi, iOS 8 non è comodo, né ideale, da usare. Per provare il suo punto, Dmitry mostra come le aree dell’interfaccia con i bottoni più importanti di un’applicazione (il menù in alto, ad esempio, con le opzioni più comuni, come Salva, Chiudi, Conferma, Indietro, etc.) rientrino nell’area dello schermo difficile da raggiungere. L’utente, come conseguenza, si ritrova di continuo a riposizionare il device in mano — un device fra l’altro molto scivoloso.

Alcuni sviluppatori hanno risolto spostando gli elementi importanti in basso (una soluzione, secondo Dmitry, oltre menù di navigazioni alternativi rispetto a quello suggerito da Apple, potrebbe arrivare con Force Touch), ma resta che il pattern promosso da Apple (in Mail, ad esempio) e legato a precedenti versioni di iOS e iterazioni dell’iPhone non è più adatto (o se non altro ideale), viste le dimensioni dello schermo.

Più l’iPhone diventa grande, più quei bottoni diventano arduii da pigiare con il dito: purtroppo, come mostra l’immagine, il tipico menù di navigazione dopo iPhone 5 è posizionato nell’area rossa (l’esempio che segue, di Scott Hurff, è con Mailbox).

Apple, sottolinea Dmitry, non ha adattato l’interfaccia ai nuovi schermi (più grandi), ma ha applicato due pezze (una okay, l’altra scomoda):

  • swipe verso destra dal bordo sinistro, per tornare indietro (in mail, ad esempio)
  • doppio tap sull’Home Button per abbassare l’intera UI in modo da rendere quei bottoni più raggiungibili

La seconda, che dimostra come Apple sia consapevole del problema, è bizzarra e non tanto rapida da usare (a quel punto mi sposto in su con l’intera mano). È una pezza: invece di ripensare e adattare l’UI ci hanno dato un modo per abbassare quella vecchia, inadatta e scomoda nell’85% dei casi d’uso.

La nuova dittatura delle ricevute di lettura

Fra le cose più stupide che sono successe negli ultimi anni io ci metto le ricevute di lettura. Mentre prima erano un’opzione, oggi vengono inflitte senza possibilità di opt-out su Facebook e simili. Sarebbe bello (se non altro) se fosse possibile abilitarle solo per certi contatti, e soprattutto sarebbe giusto che la scelta — di abilitarle o meno — ricadesse su me. Invece nel caso di iMessage sono abilitate o per nessuno o per tutti, e nel caso di Facebook la scelta nemmeno esiste.

Capisco l’intenzione, buona (Es. “Ricordati il latte” non ha bisogno di una risposta, ma solo di una lettura), ma sono diventate uno strumento per spingere le persone a sentirsi in difetto se non rispondono entro pochi minuti dalla lettura, e servono solamente a soddisfare l’ego del mittente. Credo sia anche per questo che abbiamo finito con l’accettarle: non ci piacciono da destinatari, ma nella posizione di mittente ci tornano comode, ansiosi come siamo che tutti rispondano quanto prima.

Eppure, il fatto che io abbia avuto modo e tempo di leggere un messaggio non significa che debba anche occuparmi della risposta ora, non significa che debba interrompere ulteriormente la mia attività (qualsiasi essa sia, anche stessi solamente fissando il soffitto da ore) per rispondere. Invece, con le ricevute di lettura, tutti si aspettano che tutti siano sempre connessi. È come essere in chat, e avere il proprio stato su online alla mercé di tutti. La linea di ragionamento è questa: X ha visto il messaggio? E allora è davanti a un computer, o ha uno smartphone/tablet con sè, e deve e può rispondermi.

Le ricevute di lettura, come scrive Garret Murray, eliminano la distinzione fra offline e online facendo credere all’interlocutore che tutti siano immediatamente disponibili e sempre connessi:

Sending read receipts completely removes the feeling of being offline. When you don’t send receipts, people can send you as many messages as they’d like but until (if ever) you respond they have no idea if you received the message at all and they can make the safe assumption you might be unavailable at the moment. I like this. I miss this. With read receipts enabled, you’re always online. People know the minute you glance at their message. Sometimes I’m in the middle of feeding my kids but I glance at the phone. Now for the next hour this person knows I’ve read but haven’t responded. Why do I need this stress?

È una situazione davvero stressante, e siccome oramai sono inflitte senza scelta è necessaria una serie di accorgimenti non sempre efficaci per evitare di inviarne una. Apro iMessage con la paura che questo invii una ricevuta di lettura (aprendosi in automatico su una conversazione), sblocco l’iPhone stando attento a non scorrere sopra una notifica, visito Facebook ignorando le icone rosse che segnalano messaggi — perché oramai non mi è più possibile leggerli senza dover rispondere pochi attimi dopo. Un po’ come succede a Garret, dalla lettura di un messaggio parte nella mia mente una specie di cronometro — più passa il tempo più mi sento in difetto, più la persona dall’altra parte probabilmente si sente in diritto di ricevere una risposta quanto prima.